"Limitarsi a vivere non è abbastanza, c'è bisogno anche del sole": il secondo film di Andrea Magnani (il primo fu nel 2017 l'eccentrico e dirompente Easy - Un viaggio facile facile) inizia citando uno dei più celebri scrittori di fiabe, Hans Christian Andersen, e non è un caso. Perché (come leggerete nella recensione de La lunga corsa in sala dal 24 agosto) la storia che qui si prova a raccontare è uno stralunato viaggio di formazione, che dalle favole prende in prestito la vocazione alla meraviglia e l'ambientazione surreale. Non è un film perfetto, a volte paga lo scotto di chiudersi su se stesso e rimanere incastrato tra una ingenua ripetitività e una stilizzazione eccessiva, ma vale la pena concedergli una possibilità perché ha il potere di far sognare l'impossibile e aprire riflessioni non banali, soprattutto se la vicenda è tutta ambientata in un carcere.
Nascere e crescere in un carcere
E proprio in un carcere nasce e cresce il protagonista de La lunga corsa, l'ingenuo Giacinto, che a molti evocherà il Forrest Gump di Tom Hanks: entrambi abitati da purezza, innocenza, una buona dose di disincanto e una innata quanto immotivata passione per la corsa. Giacinto è nato in un istituto penitenziario femminile, figlio di due detenuti a cui in fondo di quel bambino è davvero importato poco: si sarebbe dovuto chiamare Rosa nella convinzione che fosse una bambina, ma quando si sono accorti che sarebbe stato un maschio hanno deciso di ripiegare su Giacinto, "che è pur sempre il nome di un fiore". Al battesimo suo padre lo ha usato per architettare la fuga, allontanandosi con lui a bordo della camionetta delle guardie giurate e abbandonandolo sul sedile per poi sparire per sempre facendo perdere le sue tracce; quando era poco più che un ragazzino la madre ha cercato di coinvolgerlo in un rocambolesco tentativo di evasione poi sventato dalle guardie.
Lì dentro ha imparato a gattonare infilandosi tra le sbarre, ha mosso i primi passi tra le cure paterne del burbero Jack, il capo dei secondini, e poi ha iniziato a correre fino a quando quell'universo immobile fatto di secondini, celle stipate l'una addosso all'altra e detenute dagli occhi di ghiaccio non è diventato casa. Infanzia, adolescenza, maggiore età, e anche nel momento in cui avrà la possibilità di varcare quella soglia e trovare il suo posto nel mondo, Giacinto non vorrà saperne. Quando a 18 anni infatti viene affidato a una casa famiglia, non esiterà a trovare il modo di farsi arrestare per rientrare in carcere, un rifugio a cui non saprà rinunciare neanche da adulto tanto da tornarci una volta diventato guardia carceraria.
Una fiaba folle e stralunata
L'ambientazione fantastica e i personaggi de La lunga corsa, da una solitaria e sinistra detenuta alla stramba direttrice del carcere che porta una benda da pirata sull'occhio, sono quelli di una fiaba classica. Ma il microcosmo di Giacinto è fatto di cancelli scorrevoli, sbarre, finestre, tintinnio di chiavi, cortili interni e uno zainetto a orsacchiotto: è lo spazio della certezza dove nulla può cambiare, neanche i lavori in corso sulla strada appena fuori dal carcere. Incapace di decifrare il reale, il protagonista di questa favola carceraria è un outsider gentile e spaesato, occhi grandi e sgranati sul mondo. Lo interpreta alla perfezione Adriano Tardiolo, che si porta dietro lo sguardo disincantato e colmo di meraviglia di un altro personaggio a cui ha prestato il volto, l'altrettanto puro e ingenuo Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher.
Gli fa da spalla uno straordinario Giovanni Calcagno, "padre" affettuoso che lo accompagnerà in un percorso di affrancamento e liberazione. Una corsa folle e strampalata, che non sempre brilla per autenticità, affogata com'è in qualche didascalismo e standardizzazione di troppo, mentre i personaggi affossano in una staticità che non permette alla storia di spiccare veramente il volo. Fino alla carrellata finale sui titoli di coda in cui il reale tenuto fuori per tutto il film fa improvvisamente irruzione attraverso le immagini dell'ingresso di reali case circondariali italiane riprese alle prime ore del mattino, una sferzata che ridà ancora una volta senso al volo di Giacinto.
Conclusioni
Nel complesso, come già ampiamente spiegato nella recensione de La lunga corsa, il film di Andrea Magnani merita più di una possibilità. Nonostante qualche inciampo nella forma i personaggi da fiaba e le ambientazioni surreali che contribuiscono a definire dei non luoghi, si rivelano la vera autentica forza di questa commedia carceraria riletta in chiave fantastica.
Perché ci piace
- Una fiaba carceraria folle e stralunata.
- Ambientazioni fantastiche e surreali per raccontare il viaggio di formazione di un giovane adulto alla ricerca del proprio posto nel mondo.
- Un protagonista indimenticabile interpretato dall’ottimo Adriano Tardiolo.
Cosa non va
- La storia non spicca mai davvero il volo, prigioniera di qualche didascalismo e standardizzazione di troppo.
- Il film rischia di chiudersi su se stesso e rimanere incastrato tra una ingenua ripetitività e una stilizzazione eccessiva.