La luce della memoria
Parigi, 1942. La Francia è occupata dai nazisti, e il regime collaborazionista di Vichy ha avviato una politica di dura persecuzione degli ebrei. Prima l'obbligo di portare la stella gialla, poi la graduale emarginazione dai luoghi pubblici, infine l'estromissione dagli uffici statali: le famiglie ebraiche, tra cui quella di Schmuel Weismann, insegnante, di sua moglie Surah e dei loro tre bambini, provano ad adattarsi alle dure limitazioni che il governo ha imposto loro. Ma nessuno è realmente preparato a ciò che sta per accadere: insieme agli occupanti tedeschi, il governo di Pétain pianifica e mette in atto una massiccia opera di deportazione. Nella notte tra il 15 e il 16 luglio, 13.000 ebrei parigini vengono prelevati dalle loro case e rinchiusi nel Velodrome d'Hiv, dove vengono ammassati in condizioni igieniche e sanitarie precarie. Ma è una destinazione provvisoria, che vedrà le famiglie condotte prima nel campo di concentramento francese di Drancy, nella periferia della capitale, e infine ad Auschwitz, da cui la maggior parte di loro non farà mai ritorno.
Non è agevole approcciare criticamente un film come questo, data innanzitutto l'importanza del tema trattato, ma anche e soprattutto l'indubbia sincerità di intenti che emerge dalle sue immagini. Lontana da qualsiasi tentazione ricattatoria e da approcci gratuitamente enfatici al tema, la regista Roselyne Bosch costruisce un'opera vibrante, coinvolgente, a tratti emotivamente difficile da sostenere: piuttosto che asciugare la materia e raccontare gli eventi in modo distaccato, la regista sceglie di portarci direttamente dentro la vicenda, farcela vivere come se ne fossimo i protagonisti, farci sentire sulla pelle la mostruosità di azioni coscientemente eseguite contro esseri umani innocenti. Il film non arretra di fronte alle grida, alle lacrime, agli insulti dei soldati e alla perversione dell'innocenza dei bambini: è proprio il loro punto di vista a prevalere su tutti gli altri, gli anticorpi all'orrore certo più sviluppati di quelli dei loro genitori, ma ancora tragicamente insufficienti di fronte a un male insensato e allo stesso tempo banale. Quello che vediamo non è solo il freddo calcolo criminale di politici che burocraticamente pianificavano la cancellazione di una parte della loro popolazione, non è solo il meschino riemergere dei sentimenti antisemiti di governanti (e cittadini) che non aspettavano che l'occasione giusta per mostrare il loro dormiente lato discriminatorio. Oltre a questo, c'è il volto del male mostrato frontalmente e senza mediazioni sullo schermo, c'è un Adolf Hitler (interpretato dall'attore Udo Schenk) rappresentato in momenti di vita familiare, sulla sua terrazza, mentre discute e gioca con i bambini. Una figura media e insignificante, un male dal volto terribilmente banale, ordinario, che diventa persino caricaturale quando si trasforma nel leader che conosciamo, quello che ha trascinato il mondo sull'orlo del baratro. Questo Vento di primavera ha dunque un valore pedagocico, aumentato dalle minuziose ricerche svolte dalla regista e dalla generale, scarsa conoscenza storica dell'episodio che narra, che si aggiunge all'onestà e alla genuina voglia di raccontare, a quella carica etica che da sempre vede il cinema come strumento di documentazione e monito civile. Tuttavia, bisogna rilevare che la difficile strada scelta dalla Bosch, quella di non arretrare di fronte all'aspetto emotivo, di impregnare totalmente la materia filmica dell'orrore degli eventi storici narrati, non sempre conferisce al film il giusto equilibrio: se la prima parte è narrativamente e registicamente impeccabile, con la perfetta descrizione delle ricadute della politica antisemita sulla precaria quotidianità dei protagonisti, non altrettanto si può dire del segmento successivo, che segue la deportazione nel velodromo. Il precipitare degli eventi e le sue tragiche conseguenze sugli affetti dei protagonisti provocano a volte la perdita del senso della misura nella narrazione, mentre il personaggio dell'infermiera Annette (interpretato da Mélanie Laurent) appare un po' monodimensionale, eccessivamente caricato di una vocazione cristologica al martirio che le sottrae credibilità. Lo stesso rapporto con un comunque ottimo ed espressivo Jean Reno (nel ruolo del medico del velodromo) è messo da parte per la scelta di delineare un carattere dalle tinte quasi messianiche, di cui vengono inevitabilmente sacrificate le sfaccettature. Sono comunque difetti su cui si può sorvolare, se si considera una regia che mantiene il più delle volte una lucidità notevole, riuscendo a mescolare più che bene coinvolgimento emotivo e aderenza ai fatti: un'aderenza voluta e ricercata, scelta programmaticamente perché su eventi come questo la luce resti accesa. Dire che ce n'è bisogno, oggi più che mai, è superfluo.
Movieplayer.it
3.0/5