Recensione Offside (2006)

La storia semplice e minimale raccontata da Jafar Panahi, con protagoniste un manipolo di combattive ragazzine che lottano contro il divieto imposto alle donne iraniane di accedere agli stadi, acquista un significato simbolico ben più grande: rappresentare la condizione di un'intera nazione soggiogata da un regime oscurantista e discriminatorio, imposto da decenni con la violenza e senza alcun consenso popolare.

La libertà in gioco

I film non sono entità astratte e immateriali, ma al contrario sono esseri pulsanti e dotati di vita autonoma. Nascono grazie al frutto di molteplici apporti creativi umani, si sviluppano e crescono scontrandosi con la realtà che li circonda, mutando in relazione all'ambiente circostante. Può capitare, così, che finiscano per assumere un significato e un valore diverso, che travalica anche il limite stesso dell'opera, in relazione ai cambiamenti del contesto sociale e politico in cui si trovano a vivere. Questo preambolo è per dire che Offside, l'ultimo lungometraggio girato da Jafar Panahi nel 2006, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino, proiettato oggi nelle sale acquisisce un senso, un'importanza, un'urgenza del tutto nuovi e dirompenti.


Impossibile, infatti, non rapportare il film alle cupe vicende che nel frattempo hanno coinvolto il regista. Panahi, uno dei leader del movimento democratico di protesta che ha infiammato l'Iran nella primavera del 2010, è stato arrestato dalle autorità del regime di Teheran e, solo dopo un laborioso intercedere della comunità internazionale, è stato rilasciato su cauzione. Tuttavia, è ancora confinato agli arresti domiciliari, e su di lui non solo pesa la limitazione della libertà personale, ma - cosa forse ancor più drammatica per un'artista - anche di quella espressiva, dal momento che al regista è stato proibito di girare film per ben vent'anni. Pur non potendo essere fisicamente presente alla scorsa Berlinale, Jafar Panahi è divenuto uno dei protagonisti del festival, al punto da essere proclamato giurato "virtuale" della manifestazione. Un gesto forte, di denuncia, che è stato accompagnato anche dalla riproposizione di quella che potrebbe essere la sua ultima opera da vent'anni a questa parte.

Altrettanto impossibile non leggere Offside alla luce dell'impetuosa ondata di mobilitazioni spontanee, giovanili e popolari, sbocciate negli ultimi mesi per reclamare l'insopprimibile diritto alla libertà e alla democrazia, che paiono aver travolto gran parte del Nordafrica e del Medio Oriente con conseguenze inaspettate. Ecco che la storia semplice e minimalista raccontata da Panahi - con protagoniste un manipolo di combattive ragazzine che lottano contro il divieto imposto alle donne di accedere agli stadi, sullo sfondo della partita decisiva di qualificazione ai mondiali dell'Iran - acquista un significato simbolico ben più grande, che vale a rappresentare la condizione di un'intera nazione soggiogata da un regime oscurantista e discriminatorio, imposto da decenni con la violenza e senza alcun consenso popolare.

Con l'autenticità e l'immediatezza della messa in scena di stampo neorealista che ha sempre contraddistinto l'allievo di Abbas Kiarostami (impiego di interpreti presi dalla strada, sovrapposizione tra vita reale e narrazione cinematografica), quello che ci racconta Offside va allora ben al di là dalla semplicità cronachistica del racconto. In maniera sotterranea, Panahi affronta questioni anche complesse, come l'invalicabile rigidità dei ruoli sociali che dividono nettamente uomini e donne nella società iraniana, tema ricorrente, questo, di tutta la filmografia del regista.
Lo spazio rappresentato dalla partita di calcio, che in effetti nel film non è mai mostrata direttamente, assume così un valore simbolico, e incarna un luogo ideale e utopico, dove è possibile esprimersi liberamente e mutare i ruoli di genere (le ragazze assumono sembianze maschili, addirittura una di loro si traveste da soldato). Tuttavia, questo spazio, è ancora negato alle donne iraniane, che vengono confinate in un metaforico recinto fuori dallo stadio, e possono assistere alla partita solo attraverso una grata.

Rappresenta invece una novità per Panahi il ricorso a un approccio dai toni - in apparenza - più lievi, quasi da commedia agrodolce, come se l'autore annunciasse un passaggio verso un "neorealismo rosa", dove però emergono a tratti squarci improvvisi di dolore e di tragedia.
La conclusione aperta del film, che tuttavia sembra aprire alla possibilità di un lieto fine, lascia però intendere come l'autore rimanga ancora fiducioso nelle sorti del proprio paese, il quale sembra animato, nonostante tutto, da un forte senso di solidarietà e coesione reciproca.
Non rimane dunque che sperare, per il futuro di Jafar Panahi e di tutto il popolo iraniano.