Prima di proporvi la nostra recensione de La fattoria dei nostri sogni, ecco qualche parola per introdurre il documentario scritto, prodotto e diretto da John Chester, un direttore della fotografia che circa dieci anni fa, insieme alla moglie Molly, ha deciso di acquistare una vasta tenuta a Ventura County, nel Sud della California, per avviare una fattoria basata sui principi della biodiversità. Un progetto di cui lo stesso Chester ha realizzato un ideale diario filmico al fine di raccontarne la nascita, i primi passi e lo sviluppo, confluito poi in questo lungometraggio presentato nel 2018 ai festival di Telluride e di Toronto, per approdare infine con successo sul grande schermo (ben quattro milioni di dollari raccolti nelle sale americane).
Scappo dalla città...
Dopo un breve prologo - una sorta di flashfoward - sugli incendi in California nel 2018, La fattoria dei nostri sogni torna alle origini della Apricot Lane Farms: John e Molly Chester, quest'ultima cuoca e food blogger, entrambi con la passione per la natura, decidono di dare una svolta alla propria esistenza e, in compagnia del loro cane Todd, abbandonano la vita cittadina a Santa Monica per comprare un appezzamento di circa quaranta ettari di terreno coltivabile nella località di Moorpark, a poche decine di chilometri da Los Angeles. Un appezzamento che i coniugi Chester trasformano in una fattoria all'avanguardia, con diversi tipi di coltivazioni e una notevole varietà di animali, a partire da una vivace scrofa di nome Ugly Betty, ma prontamente ribattezzata Emma.
Il film sorvola in maniera pressoché totale su alcuni aspetti 'pratici' dell'operazione, a partire dai fondi per avviare un'attività tanto ambiziosa (c'è solo un fugace riferimento a non meglio precisati finanziatori), per dipingere invece una visione idealizzata, almeno in apparenza, di questa country life che richiede impegno e dedizione totali. Una visione alla quale, con il passare degli anni, si aggiungeranno tuttavia elementi più problematici: i parassiti di ogni tipo e gli assalti dei coyote, il malessere di Emma e i polli divorati da un cane da guardia.
L'equilibrio della disarmonia
Ma nel documentario di Chester, il 'dramma' rimane sospeso in superficie, senza mai prendere il sopravvento. Il principio appreso dai coniugi Chester, e ribadito dalla voce narrante dell'autore, è che la cosiddetta "disarmonia" sia parte integrante della natura, e debba pertanto essere accettata e integrata nel lavoro dei due fattori. È lo spunto di maggior interesse di un film che, per il resto, risulta imperniato su un ottimismo e uno spirito edificante che spesso rasentano l'agiografia: sia per la tendenza didattica dell'opera, corredata da riflessioni e aforismi serviti in maniera diretta allo spettatore, sia per il modo in cui il regista sottolinea la bellezza e la 'pulizia' delle immagini, tenendo fuori campo qualunque aspetto più duro o sgradevolmente realistico (unica eccezione, l'uccisione di un coyote).
Conclusioni
Dalla colonna sonora alle scelte estetiche, passando per qualche ricercato momento di commozione (la scomparsa di Alan, l’uomo che aveva fatto da mentore ai coniugi Chester), a conclusione di questa recensione de La fattoria dei nostri sogni possiamo dire che il film procede in una direzione ben precisa, secondo un approccio accattivante che fa leva principalmente sul fascino bucolico di un mondo complesso e sorprendente. Sono i punti di forza di un documentario che rischia talvolta di adagiarsi su una prospettiva tutto sommato edulcorata della vita in campagna e del lavoro agricolo.
Perché ci piace
- L’affascinante descrizione del mondo agricolo, della sua varietà e delle sue sfide quotidiane.
- La capacità dell’opera di coinvolgere e far immergere lo spettatore nella realtà in cui vivono i coniugi Chester.
Cosa non va
- Una visione nel complesso idealizzata ed edulcorata, che non problematizza fino in fondo alcuni spunti offerti dal film.
- Vari aspetti di importanza non indifferente trattati invece in maniera superficiale e sbrigativa.