Contaminazione, ovvero quella fusione di più elementi, diversi tra loro, che vanno a caratterizzare la composizione finale di un'opera narrativa. Più in generale, è la negazione del genere, l'azzeramento della rigidità - come teorizzava Benedetto Croce - in funzione della fantasia. Ecco, per brevità, l'esempio cinematografico perfetto (ma anche l'esempio più abusato) è quello relativo a Quentin Tarantino. Nei suoi film c'è un po' tutto: un classico che ritorna al passato ma, intanto, guarda prepotentemente al presente. E non è sbagliato considerare Pulp Fiction come il primo dei film post-moderni.

Il paragone tra i due autori sarebbe scomodo quanto inadatto, ma è assai chiaro quanto all'interno della nostra industria ci sia un autore intellettualmente vicino al concetto di contaminazione: Gabriele Mainetti. E non è un caso che le sue radici siano ben salde nel territorio romano, luogo eterno che, Secolo dopo Secolo, è stato contraddistinto da un inesorabile melting pot, tanto complesso nelle dinamiche quanto fondamentale per mantenere in vita la città. Come dimostra l'opera terza del regista di Jeeg Robot, La città proibita, in sala dal 13 marzo con PiperFilm.
Le mille lingue di Piazza Vittorio

Il film, essenzialmente, è un omaggio al cinema anni Ottanta e anni Novanta, tagliando a metà quei titoli da cassetta con Jackie Chan, Bruce Lee, Kurt Russell, Van Damme e Ralph Macchio. La rivisitazione alla cacio e pepe dei kung fu movie (con un pizzico di soia), e ancora la diretta conseguenza alle vibrazioni in stile Tomas Milian, con tanto di sentito omaggio a Delitto al ristorante cinese. Un po' Kill Bill e un po' poliziottesco, insomma. La città proibita sfrutta allora la contaminazione come tramite, per districarsi all'interno di un convulso intreccio che trova la sua ragione d'essere nella location.

Dopo i quartieri est di Roma de Lo chiamavano Jeeg Robot, e dopo la Roma sotto occupazione di Freaks Out, Mainetti sfrutta il rione più incrociato di tutti, l'Esquilino. Piazza Vittorio, con i suoi odori etnici che si inseguono, e con le sue mille lingue che si accalcano, è quindi il palco in cui si agitano gli sperduti protagonisti: Marcello, ovvero Enrico Borello, che fa il cuoco in un ristorante sotto i portici (l'unico locale italiano, tra ristoranti asiatici e kebabbari), e Mei, con il volto di Yaxi Liu. Lui sta cercando suo padre, scappato con una ragazza più giovane; lei sta cercando invece sua sorella, inghiottita dalla mafia cinese.
La città proibita e il melting pot, tra cinema e romanità

Un dialogo con il presente, quello di Mainetti, che risulta imprescindibile rispetto alla sceneggiatura firmata da Stefano Bises e Davide Serino. Del resto, il tono e il ritmo de La città proibita - come per Delitto al ristornate cinese di Corbucci il fulcro è proprio il ristorante - è dettato dalle cadenze romane, e dalla sua continua e incessante evoluzione. In questo senso, il paesaggio si muove come si muovono i protagonisti: da Piazza Vittorio fino al Colosseo, i Fori e il Teatro Marcello. Mai cartolina, però, tanto che la macchina da presa sceglie poi la Stazione Termini come definitivo approdo: il porto di Roma, via vai di un'umanità sbilenca che si mescola con i preistorici malandrini (e il personaggio di Marco Giallini ne è l'amarissima lettura). "Roma è protagonista del mio cinema. Siamo all'Esquilino, quartiere che sia apre ad una grande città. Da pischello era bello salire sul motorino, e far fare il giro ad una ragazza, facendole scoprire i monumenti romani", spiega proprio il regista, durante l'incontro stampa. "Qui, però, non c'è una città che travolge il racconto, ma c'è una Roma che ha la possibilità di cambiare e reinventarsi, grazie alla cultura portata da Mei".

Roma è una frontiera senza tempo, che il regista rivede attraverso un contemporaneo mai edulcorato: lo sfruttamento degli immigrati, le case stipate da irregolari in cerca di lavoro, i lavapiatti pakistani, la sopravvivenza degli ultimi che, con dignità e abnegazione, resistono ai soprusi e agli abusi di un vecchio modo di fare e di pensare. "Ho tentato con Paolo Carnera e Andrea Castorini di fotografarla in modo diverso, per far capire che siamo anche altro. Roma fa parte di me, ci sono cresciuto", confida Mainetti. Infatti, è il coro tutt'attorno ai protagonisti de La città proibita ad essere il colore primario su cui il regista costruisce l'azione, omaggiando tanto il cinema con cui è cresciuto - il cinema della Gen X, senza fronzoli e con tanta sostanza - quanto il cinema del presente, sempre più allargato verso quelle succulente commistioni capaci di fare la differenza. Al cinema come nella vita.