Nella cornice di Lucca Changes, l'edizione in digitale di Lucca Comics & Games tenutasi a distanza nel 2020, spiccò un incontro con Gabriele Mainetti. Durante la conversazione il regista raccontò dei fatti molto significativi che testimoniarono la sua considerazione a livello internazionale dopo il successo folgorante di critica e pubblico della sua opera prima, Lo chiamavano Jeeg Robot.

Mainetti disse che all'estero rimasero molto impressionati dal suo lavoro, tanto che fu avvicinato dalla Sony per diverse proposte, da Black Cat a Silver Sable, fino, addirittura, al progetto legato al rilancio di Venom. Il regista non portò avanti il progetto, anche per la volontà di continuare il suo percorso in Italia, nel nome di una visione inedita e ambiziosa e che lo ha condotto fino a La città proibita.
L'idea al centro della poetica di Manetti è quella di riuscire a creare una commistione dal sapore post moderno che fosse in grado di unire la matrice nostrana con una contaminazione in grado di guardare in modo deciso al di fuori del nostro Paese. Come? Attraverso uno studio sul genere, chiave di volta per scardinare muri e barriere di qualsiasi tipo. E La città proibita, al cinema dal 13 marzo con PiperFilm, si sofferma proprio su questo.
Un caso unico nel nostro cinema

La portata del cinema di Gabriele Mainetti è da ricercare in tutti quanti gli ambiti che riguardano un'operazione audiovisiva. Interesse del regista è infatti non solo quello di operare una rivoluzione artistica nel nostro panorama, portando avanti un'idea di internazionalità già messa in piedi nei suoi cortometraggi (soprattutto Basette e Tiger boy), ma anche cercando un rilancio dal punto di vista industriale.
Un'idea di cinema di stampo nordamericano, da macchina pensante e coordinata al millimetro, in cui la muscolarità dell'operazione era indispensabile per una riuscita qualitativa del livello desiderato, senza però mai perdere di vista una concezione che doveva sempre ritornare ad una tradizione fortemente italiana. Una fusione in piena regola e su tutti quanti i livelli in cui era possibile giocarsela. Un cinema quindi soprattutto dispendioso, difficile e responsabilizzante. Una fortuna, in qualsiasi modo la si guardi, per un'industria audiovisiva, anche solo per la carica vitale che avrebbe portato con sé.
Il lavoro sul genere è stato il grimaldello artistico scelto da Mainetti, cambiando ogni volta registro linguistico e dimostrando la sua incredibile poliedricità dietro la macchina da presa, quando con il cinecomic, quando il cinema d'avventura in salsa shakesperiana e quando, come ne La città proibita, con il kung-fu. Il tutto sempre rapportato alla commedia all'italiana, il poliziesco e il dramma storico.
La città proibita è il simbolo della poetica di Mainetti
Dopo due lungometraggi, Mainetti arriva a La città proibita cercando una nuova sfida, quella per certi versi più ostica, ma, possibilmente, anche più risolutiva. Una sorta di esame autoimposto (a testimonianza dell'ambizione e dell'autoanalisi continua del cineasta romana) che aveva il compito di aprire uno spiraglio e dichiarare al pubblico la sua idea di cinema in modo definitivo.

La pellicola si presenta come la più risolta dal punto di vista tematico, nel suo essere fortemente anticolonialista e inclusiva, e presentandoci una realtà in cui tutto gira intorno alla transizione di un mondo chiuso che, per sopravvivere, deve aprirsi all'altro. La trama stessa è metafora di un tumulto con cui i personaggi si ritrovano a dover fare i conti, chi beneficandone e chi venendone travolto, felicemente ritmato a suon di colpi di kung fu.
Mainetti ne La città proibita fornisce una prova registica semplicemente sensazionale, filmando dei combattimenti coreografati al millimetro e fornendo loro una dinamicità, un ritmo e una narrazione praticamente mai visti nel nostro Paese. Qualcosa che non guarda solamente all'Oriente, ma anche agli Stati Uniti, pescando da Tarantino, ma anche da Stahelski. Un sunto incredibile che avvicina così tanto Hong Kong e Hollywood da farli entrare entrambi a piazza Vittorio. Se non è questa la sintesi di una visione internazionale e italiana allo stesso tempo, diteci voi cosa potrebbe esserlo.