"Il cinema di genere in Italia non si fa più". Vero, come tendenza almeno, ma come tutte le frasi assolute non è mai vera del tutto. Il cinema di genere in Italia si fa sempre meno e le spiegazioni sono tante e sono relative al pubblico e alle sue caratteristiche, ai costi che servono per poter creare qualcosa di un certo livello e alla mentalità dei nostri creativi.

D'altro canto la necessità di evolversi e di tornare a parlare un linguaggio più maturo, vario e credibile è fondamentale per il nostro movimento da ogni punto di vista. Le frasi assolute non sono mai del tutto vere, però rimane del tutto vero che mancano dei tasselli al mosaico del cinema italiano. La missione di Gabriele Mainetti sta proprio nella volontà di colmare questi vuoti attraverso l'utilizzo del genere, e con La città proibita è riuscito a realizzare qualcosa di unico.
Mai nessuno nel nostro Paese è infatti riuscito a prendere il gongfupian e rielaborarlo in una chiave postmoderna così efficace e spendibile. Il che non vuol dire solamente saper girare bene un film con il kung fu, ma sapere adoperare i meccanismi di quel linguaggio così specifico per raccontare una storia con un'eco politica, sociale e storica. Una storia raccontata attraverso le logiche del genere, e che sappia anche parlare di noi.
Il gongfupian, alle origini de La città proibita

Il gongfupian nasce più o meno negli anni '70 (o, almeno, esplode in quegli anni come fenomeno cinematografico) soprattutto grazie alla figura di Bruce Lee, non limitandosi assolutamente a Hong Kong e all'Asia in generale, ma espandendosi in poco tempo fino all'Occidente sotto forma di B-movie. La critica non li accolse benissimo e ci pensò quindi il successo di pubblico che ottenne in breve tempo a imporre il genere come altamente codificato, sia a livello strutturale che visivo.
C'erano delle regole che gli permettevano di staccarsi dal "rivale", il wuxiapian, ovvero il realismo, l'uso di calci e pugni, armi bianche, le storie di vendetta e l'ambientazione contemporanea e regole visive che vedevano i combattimenti come momenti narrativi veri e propri, forse i più importanti. Il gongfupian era "musical coi cazzotti". I nordamericani si appropriarono di queste regole e le riscrissero, trovando il modo di rendere i film più smerciabili, divertenti e adoperabili in altri contesti. In questo caso Jackie Chan è stata una figura importante, ma ci sono tanti altri registi, come Jon Woo, che hanno scritto pagine fondamentali.

Ad oggi il gongfupian oltreoceano vive nel cinema di Chad Stahelski e Gareth Evans, ma è molto cambiato il modo di pensarlo. Spesso pieno di combattimenti che cercano una spettacolarità fuori scala e sono spesso staccati dal contesto narrativo, preferendo l'idea videoludica, l'adrenalina ad ogni costo e la precisione millimetrica. Parliamo di una realtà lavorativa estremamente complessa in cui possono vivere solo dei professionisti con degli standard e delle attitudini rare. Pensate la difficoltà di Gabriele Mainetti nel provare a creare qualcosa che potesse essere parte di un mondo del genere.
L'unicità della "missione" di Mainetti

A guardare la regia dei combattimenti de La città proibita si percepisce come l'idea del cineasta romano non era tanto quella di guardare l'America, ma partire da un'idea di sintesi, cioè che potesse prendere i mezzi e le visioni statunitensi (lo stunt coordinator del film è Lian Yang, lo stesso, per esempio di Deadpool & Wolverine), dialogando però con la matrice tradizionale. Ogni sequenza di combattimento è dinamica, divertente e concepita al millimetro e in più racconta sempre qualcosa che serve al film.
Nel titolo non ci sono però solamente Hong Kong e Stati Uniti, ma c'è anche l'Italia e com'è vero che Roma si è già prestata a essere teatro di un duello di kung fu tra i due Paesi sopraindicati in L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente, stavolta la scommessa è quella di creare un dialogo. Quello di Mainetti è infatti un film in cui la regola cardine è quella di abbattere le barriere di qualsiasi livello.
Ne La città proibita l'italianità sta nella rielaborazione del genere, nella conservazione di un cuore radicato nel nostro Paese, ma anche nell'inserimento di altri elementi tipici del nostro cinema come lo spaghetti western di Leone (l'innesco della trama è uguale a Per un pugno di dollari) o un mix parossistico tra La Dolce Vita e Vacanze Romane. L'unicità del film, così come quello della missione di Mainetti, sta nel creare un linguaggio nuovo, che parta da una contaminazione coerente e funzionale e il genere è senza dubbio la chiave di volta per lavorare in questo senso.