Recensione Nowhere Man (2008)

Una storia che poteva risultare scontata ed all'insegna del già visto, ma che, al contrario, si riscatta proprio grazie all'originalità dell'autrice almeno dal punto di vista figurativo e dello scavo nei personaggi.

L'uomo che non c'era

Presentato al Festival del cinema di Venezia nella sezione "Giornate degli autori", Nowhere Man è il tipico esempio di film sperimentale non completamente riuscito, ma comunque ricco di spunti interessanti che lo rendono degno d'attenzione. La regista Patrice Toye, che a suo tempo è stata collaboratrice di Wim Wenders, non ci mette molto a fornirci il suo punto di vista su una storia che poteva risultare scontata ed all'insegna del già visto, ma che, al contrario, si riscatta proprio grazie all'originalità dell'autrice almeno dal punto di vista figurativo e dello scavo nei personaggi. Il protagonista è Tomas, un borghese di mezza età, il quale incomincia a sentirsi soffocato dalla deprimente normalità della sua vita. Tomas lavora come impiegato, ha una bella moglie ed una casa, ma è tremendamente insoddisfatto, pieno di dubbi ed apparentemente affetto da sindrome dell'abbandono. Progetta di ricominciare una nuova vita ed un giorno gli capita l'occasione giusta: fa credere di essere rimasto vittima di un incendio e si spaccia per morto. Si trasferisce su un'isola in mezzo all'oceano dove tenta di aprire un bar, ma senza successo. Cerca un lavoro e gli viene offerto un posto misero che "rende poco e fa male alla salute". Fa amicizia con Muso, un collega abitante del luogo, unica compagnia nel grigiore quotidiano dell'isola. Dopo alcuni anni e varie disavventure l'uomo capisce di aver fatto un grosso errore nell'abbandonare la moglie e decide di ritornare. Ma le cose sono cambiate...

Nowhere Man è l'ennesima variazione sul tema della fuga e della ricerca della felicità che non ha molto da offrire nella prima parte, nonostante una regia solida e le buone performance degli attori. Ma dopo la prima ora scopre le sue carte più interessanti. Si passa da una narrazione lineare e classica ad uno stile surreale, adeguato a dare un maggiore peso all'interiorità del protagonista. Da quando Tomas fa ritorno dall'isola (emblematico il fatto che se ne sia andato dalla moglie per paura di perderla!) si assiste ad una sorta di viaggio spirituale, nel quale il personaggio compie un distacco dalla sua vita precedente, trascorsa in esilio volontario. Qui la cineasta belga ha l'opportunità di scatenarsi in una serie di simbolismi e rimandi, che se da un lato rendono la pellicola assai stimolante, dall'altro non ne facilitano la fruibilità. La trama trova un riferimento letterario nel romanzo pirandelliano Il fu Mattia Pascal, del quale riprende la riflessione sull'identità: il protagonista è frustrato dalla propria vita e, nel tentativo di cambiarla, simula una morte accidentale e si trasferisce altrove. Dopo aver collezionato l'ennesimo fallimento con la sua nuova identità tenta di recuperare quella passata, ma è troppo tardi, nessuno lo "riconosce". La differenza sostanziale con Pirandello invece sta nell'impronta grottesca che la Toye introduce nelle situazioni e nei personaggi, creando un'atmosfera a tratti surreale, ora efficace, ora troppo pretenziosa e di sicuro non per tutti i palati.

"Nowhere man" significa "uomo di nessun posto" e si riferisce proprio al protagonista, perennemente collocato in un non-luogo a lui estraneo, che sia la sua casa, un'isola od un appartamento. Solo alla fine, quando lo vediamo camminare dal giardino di un parco verso la città, ci rendiamo conto che forse per lui c'è una speranza, una possibilità d'integrazione (e di maturazione). Da segnalare il prologo sagacemente descrittivo, nel quale la regista ci offre un piano sequenza che si fa ricordare, sostenuto da una certa ricercatezza nella composizione delle immagini che comunque si manterrà per tutta la durata del film. Spendiamo un'ultima parola sugli attori, a cominciare dal protagonista maschile Frank Vercruyssen, perfettamente a suo agio nel ruolo affidatogli e reso credibile proprio dalla sua apparente inespressività. Più poliedrica - e forse per questo meritevole di lodi maggiormente calorose - è Sara De Roo, la quale offre un ritratto femminile sottile e ricco di sfumature.