L'ultima strada dell'umanità
Il titolo pleonastico è un omaggio stesso al genere horror. Gli occhi, il simbolo stesso del cinema, identificano come una presenza viva quelle colline misteriose e dalla morfologia accidentata che troviamo sullo sfondo. Lontane, irraggiungibili e oppressive. Come uno scherzo feroce della natura che concede e che nasconde, che allieta e che impaurisce. Lo "scontro" involontario tra le due famiglie è chiara metafora dell'uomo moderno che, al cospetto della vita primordiale, non sa più decifrare la sua bussola interiore rimanendo vittima di un mondo atavico, di un universo troppo brutale per lui. Un po' come accadeva in un altro titolo cult di quel periodo: Non aprite quella porta di Tobe Hooper. E un po' come continua ad accadere ancora oggi con pellicole come Wrong turn e Wolf Creek tra le tante. Che non fanno altro che ripetere i cliché di quei classici, senza osare di più.
La spensierata famigliola borghese in viaggio di piacere (è il 25° anniversario di matrimonio della coppia), trova il suo destino di terrore, sofferenza e morte nello stesso momento in cui il capofamiglia (un poliziotto in pensione) decide di prendere una scorciatoia. I perfetti rappresentanti della middle class americana non possono dunque sopravvivere allontanandosi dai percorsi convenzionali: questo sembra dirci Wes Craven. Da questo momento in poi inizia l'assedio da parte di ancora non ben individuabili soggetti (la prima cosa che percepiamo è la loro cavernosa voce off e gli strani simboli disegnati sulla terra) che poi capiremo esser parte di un'altra famiglia, altrettanto unita e scrupolosa nel rispettare i riti del quotidiano. Cerimonie, in tal caso, molto più tribali che vengono segnalate anche dai bizzarri appellativi mitologico-astronomici dei vari membri: Papà Giove e i suoi figli Mercurio (il produttore del film Peter Locke), Plutone (il Michael Berryman noto per la sua deformità fisica dovuta ad una rara malattia) e Marte (Lance Gordon). Ma i nomi affibbiati ai cani della famiglia Carter non sono meno bizzarri (Bella e Bestia).
Lo scarto tra i due poli estremi del vivere è troppo ampio e Craven, senza disdegnare i toni di un cinema sperimentale e a basso costo, lo amplifica conquistando lo spazio scenico con movimenti di macchina ora irruenti e ora calibrati (allargando o restringendo il campo quando si tratta di far avvertire il peso opprimente dell'ambientazione) e un montaggio (come al solito) perfetto nel suscitare tensione e ribrezzo. Più qui che nei successi planetari di Nightmare - Dal profondo della notte e Scream. Perché ne Le colline hanno gli occhi, come già nel precedente L'ultima casa a sinistra, la vena del regista americano è ancora grezza ma sinceramente feroce e disturbante, senza ancora mostrare la voglia di "giocare", seppur crudelmente, con le paure dello spettatore.