Recensione Hara-Kiri: Death of a Samuraï (2011)

Autore eclettico per eccellenza, Miike sceglie di omaggiare il cinema giapponese classico rispettandone stile e temi e aggiungendo poco o nulla di moderno; perfino con l'utilizzo del 3D non riesce a regalare alcun effetto particolarmente spettacolare ma si limita a dare profondità alla messa in scena.

L'onore di un samurai

Quando Hanshiro si reca alla Casa di Li per richiedere l'onore di poter commettere suicidio rituale, non sappiamo nulla né del suo passato né delle sue motivazioni, soltanto della sua ferma volontà di togliersi la vita visto che come samurai si trova senza padrone e senza uno scopo, un disonore che non è più disposto a sopportare. Veniamo però presto introdotti dal capo della casa, il potente Kageyu, alla diffusione di una nuova e vergognosa pratica, quella dei finti suicidi, ovvero dei veri e proprio bluff da parte di samurai particolarmente squattrinati e disperati effettuano al solo di scopo di muovere a pietà e ottenere così soldi o addirittura un lavoro.

Ci viene quindi mostrata la storia di Motome che, qualche settimana prima di Hanshiro, si era recato presso la stessa casa e con la stessa richiesta. Ma scoperto il bluff ad opera del più valoroso dei guerrieri del clan, il giovane è stato costretto a portare avanti il rito dell'harakiri. Non servono a nulla le preghiere e le confessioni (il folle piano era stato escogitato per reperire i soldi necessari a pagare il medico per moglie e figlio malato), una volta che l'onore del rito è stato concesso deve essere ovviamente portato avanti e per di più con la propria spada, poco importa che il povero Motome abbiamo venduto le sue vere armi e si ritrovi ora solo con una spada (spuntata) di legno di bambù.

E' proprio in questa scena, a tratti insostenibile nel suo mostrare non la sofferenza ma anche la difficoltà del tagliarsi il ventre con un'arma non adatta, che emerge, anche se brevemente, il Takashi Miike che conosciamo: per tutto il tempo rimanente di questo Hara-Kiri: Death of a Samuraï, infatti, il regista culto di Audition sembra quasi volersi nascondere dietro l'originale Harakiri del 1963 (di Masaki Kobayashi) di cui questo film rappresenta un remake molto fedele, e limitarsi ad imbastire una messa in scena elegante ma priva di elementi tipici della sua filmografia.

Eppure le premesse potevano far pensare a ben altro, soprattutto per la presenza del 3D (il film è infatti il primo film in stereoscopia a concorrere per la Palma d'Oro) e per la buona riuscita del precedente lavoro del regista, 13 assassini: questo nuovo lavoro di Miike ricorda piuttosto l'ottimo progetto di rivistazione sul cinema dei samurai effettuato da Yoji Yamada con la sua trilogia cominciata nel con Il crepuscolo del samurai, ma nel film di Miike manca la volontà di voler analizzare un momento storico significativo per la cultura e la società di un intero paese, piuttosto sceglie di rifugiarsi nel melò che raggiunge il suo apice quando le storie di Hanshiro e Motome si fondono.

Autore eclettico per eccellenza, Miike sceglie di omaggiare il cinema giapponese classico rispettandone stile e temi e aggiungendo poco o nulla di moderno; perfino con l'utilizzo del 3D non riesce a regalare alcun effetto particolarmente spettacolare (d'altronde l'azione è veramente ridotta al minimo), ma si limita a dare profondità alla messa in scena, riuscendoci veramente soltanto nelle scene di esterno, con elementi atmosferici e ambientali in rilievo.

Movieplayer.it

3.0/5