Recensione Invisible Waves (2006)

Dopo un intrigante incipit e il kubrickiano viaggio in nave dai notevoli accenti grotteschi, ci si chiede infatti dove Ratanaruang voglia portare la sua spaesata vittima degli eventi e la curiosità si trasforma progressivamente in frustazione.

L'invisibile percorso di un perdente

Pen-Ek Ratanaruang è un formalista. Dal talento cristallino, fortunatamente, ma un formalista, senza che questa definizione lo connoti necessariamente in modo negativo. Piuttosto, la sua ossessione per la grammatica dell'immagine in movimento e per la composizione dell'inquadratura lo porta a volte fuori strada, indebolendo il suo cinema, spostandone gli equilibri, facendoci interrogare sui risultati di una fiducia così cieca sul primato della messa in scena.
Ad ogni modo, dopo il delirio musical sconclusionato ed affascinante che fu Monrak Transistor ed il furbo ma delizioso Last Life in the Universe, Ratanaruang conquista la vetrina del concorso berlinese, con una co-produzione che riunisce Tailandia, Olanda, Corea del Sud, Honk Kong e Cina e con un thriller atipico tutto giocato sulle atmosfere ed il fuori campo, ma dal risultato purtroppo non del tutto convincente.

Racconto impalpabile e circolare questo Invisible Waves. Al centro c'è Kyoji, un uomo comune (interpretato al meglio da Tadanobu Asano) che viene invitato dal suo boss a prendersi una vacanza dal suo lavoro di aiuto cuoco. Dietro c'è un omicidio poco chiaro, all'esterno tutto è nebuloso, ordinario, inutile. Sulla nave che lo porterà a Pucket, a Kyoji ne capitano di tutte, ma soprattutto inconterà la bella Noi, femme fatale sui generis che lo inserirà in situazioni del tutto inaspettate. Ma siccome ogni azione ha una conseguenza, il risultato di ciò che accade svelerà segreti sorprendenti e aprirà le porte ad al desiderio di vendetta. Oppure no?

In questa incertezza narrativa e simbolica si situa tutto il film del regista tailandese, interessato a trattegiare attraverso atmosfere soffuse e minacciose e mediante la spoecitizzazione dei contesti, un personaggio dai contorni sfumati e dall'atteggiamento fatalista. A sua altezza Christopher Doyle il compito di coadiuvarlo. Il celebre direttore della fotografia chiude il diaframma oscurando perfino il mezzogiorno di Pucket e fotografa con rigore e diligenza (più che con l'usuale sfoggio di mirabile cromatiche) l'universo soffuso e disincantato del film di Ratanaruang contribuendo molto (insieme anche all'ossessivo commento sonoro) a generare quel senso di ipnosi che la regia di Ratanaruang genera con maestria, noncurante però dello sviluppo di un plot avvincente. Limite quest'ultimo che segna per troppo tempo la visione del film.
Dopo un intrigante incipit e il kubrickiano viaggio in nave dai notevoli accenti grotteschi, ci si chiede infatti dove Ratanaruang voglia portare la sua spaesata vittima degli eventi e la curiosità si trasforma progressivamente in frustazione. Un frustazione poco produttiva, che lascia l'amaro in bocca nelle battute finali, in cui la sensazione di un vacuo esercizio di stile si fa troppo invadente. Occasione sprecata.