L'icona che demolisce le icone
A settantasei anni, Clint Eastwood non smette di sorprendere e stupire. A lungo ritenuto personaggio reazionario, da alcuni persino quasi fascista, l'attore e regista californiano sta - film dopo film - ribaltando questo fallace immaginario che lo riguardava, e Flags of Our Fathers sembra mettere una parola più che definitiva sull'argomento.
Sulla carta, il film poteva essere uno dei tanti film di guerra che negli ultimi anni sono tornati a raccontare la II Guerra Mondiale, e soprattutto poteva diventare un inno retorico-patriottico per riunire attorno al racconto di un'immagine (la celebre foto di Joe Rosenthal) un popolo americano che pare iniziare a nutrire dubbi sulla politica estera dell'amministrazione Bush, che dopo l'11 settembre aveva così emotivamente abbracciato e supportato.
Nei fatti, Flags of Our Fathers non è nulla di tutto questo: di più, è l'esatto contrario. È un film che parte da un evento bellico (la battaglia di Iwo Jima, peraltro raccontata con un linguaggio cinematografico esemplare e coinvolgente) per raccontare di un momento storico assai simile a quello attuale, durante il quale il popolo statunitense iniziava a nutrire dubbi e sconforto per le conseguenze del conflitto; ma soprattutto per operare una destrutturazione radicale e spietata di quella che è considerata tutt'ora un'icona (la foto di Rosenthal) e di un Sistema che, tramite la retorica, quell'icona non l'ha fabbricata ma fatta propria e modellata a piacimento per i propri interessi.
Attraverso un articolato meccanismo di flashback, strutturato su tre diversi piani temporali, Flags of Our Fathers ci porta alla (ri)scoperta di come uno scatto fotografico assolutamente casuale e ben poco eroico nella sua sostanza e nel suo contenuto, sia diventato prima un simbolo di speranza e riscossa per gli americani che vivevano la guerra attraverso il filtro dei media, e successivamente di come quest'immagine iconica sia stata fatta propria dal Governo degli Stati Uniti e trasformata in qualcosa di epico allo scopo di ridare morale ai suoi cittadini e per far sì che essi potessero fornire nuovamente slancio - morale, ma anche e forse primariamente economico - allo sforzo bellico. Un'esperienza che, in qualche modo (e nemmeno troppo velato), ricalca quella dell'utilizzo del dramma dell'11 settembre attuato dall'amministrazione americana per scopi legittimi o meno di politica interna ed estera.
Nel fare tutto questo, Eastwood riesce a declinare un numero altissimo di tematiche e di piani di lettura: politicamente, appunto, mostrando la mancanza di scrupoli e riguardo avuta per le persone coinvolte nella battaglia e nella guerra, utilizzate come marionette per promuovere quella che era stata un'impresa "eroica" per decisione e non per dato fattuale; il razzismo niente affatto strisciante che comuni cittadini e alte sfere mostravano per il marine indiano coinvolto nella vicenda; come "gli eroi", acclamati per volontà superiore, siano stati abbandonati a loro stessi una volta esaurito il loro ruolo propagandistico. Quindi, della assoluta vacuità dello stesso simbolo che veniva proposto come carico di significati (retorici). Se a questa destrutturazione aggiungiamo poi il carico di significato aggiuntivo che deriva da Eastwood stesso, lui stesso icona - suo malgrado - di un certo modo di essere americani, ci si rende conto del potenziale placidamente eversivo di questo film.
Ma oltre a queste vere e proprie scudisciate che il vecchio Clint sferza sulla schiena del suo paese di ieri e di oggi, in Flags of Our Fathers il regista prosegue quel percorso ben più intimo, minimalista e commovente che ha caratterizzato la sua produzione più recente. In qualche modo esaurita la storia sintetizzata fino a questo momento, nella sua parte finale il film si concentra su temi e situazioni assai più privati e meno collettivi della dimensione politica finora evidenziata: Flags of Our Fathers diviene un film dove si coniuga dimensione pubblica e privata e se ne riafferma la loro inscindibilità; un film dove lo sguardo partecipe e malinconico del regista cattura lucidità e senza retoriche (appunto) il tema della vecchiaia, del come viverla alla luce delle tante esperienze passate, di quel pudico e trattenuto legame (soprattutto comunicativo) che si viene a creare tra due generazioni diverse. Il tutto senza trascurare la dimensione umana della guerra, sempre crudele, sempre segnante, combattuta da ragazzi che per sopravvivere agli orrori cui sono costretti si rifugiano in un commovente cameratismo e nella semplicità dei gesti e delle parole, tipici della loro giovane età.
Fino a concludersi con un tuffo in mare che strappa il cuore, che è al tempo stesso tuffo nel passato, riassunto di una vita, spinta verso il futuro, fuga dalla guerra, consapevolezza di un'umanità messa alla prova ma necessaria e irrinunciabile.