Ha riscosso consensi unanimi, Pietà. Kim Ki-duk, tuttora il più importante regista coreano vivente, è tornato quest'anno a Venezia con la sua nuova opera, arrivata dopo un periodo di riflessione (con la realizzazione di due documentari) durato tre anni. Un periodo giunto al culmine di una empasse creativa, che era stata caratterizzata dalla realizzazione di opere discutibili (ultima delle quali, il confuso Dream) e dal quasi totale oblio del circuito festivaliero nei confronti del suo cinema. Ora, la crisi sembra definitivamente lasciata dietro le spalle: il precedente Arirang, presentato nell'edizione 2011 del Festival di Cannes, resterà probabilmente come il più esplicito manifesto di quel momento artistico e umano.
Pietà mostra un regista rigenerato, con la consueta voglia di indagare la realtà, i sentimenti e le pulsioni dell'animo umano, ma con uno sguardo rinnovato e maggiormente consapevole dei suoi mezzi. L'incontro con cui Kim (insieme ai protagonisti Jo Min-Su e Lee Jung-jin) ha presentato il film ai giornalisti intervenuti al Lido ha mostrato un regista cordiale ed espansivo, più che mai desideroso di spiegare istanze e motivazioni alla base di questa sua nuova opera.
Kim Ki-duk: In Corea la tragedia greca è molto conosciuta, e continua ad essere rappresentata. Secondo me però quel genere rappresenta soprattutto sentimenti umani e rapporti interfamiliari, mentre io qui voglio parlare del capitalismo estremo, e dell'impatto che esso ha sulle esistenze umane e sui rapporti interpersonali.
La pietà del titolo è quella che lei come artista prova nei confronti della società contemporanea?
Il titolo è legato al capolavoro di Michelangelo, che ho potuto vedere in Vaticano le due volte che ci sono stato. L'abbraccio della Vergine al proprio figlio, morto sulla croce, me lo sono portato dietro per molti anni: lo vedo come un abbraccio all'intera umanità, come la comprensione e la condivisione di un dolore. Inizialmente doveva esserci un riferimento diretto a quell'immagine, nel film, ma poi mi è sembrato un espediente troppo esplicito e banale: erano state fatte però delle foto ispirate a quell'immagine, e una di esse è finita poi nella locandina.
In realtà ci sono anche altri due protagonisti, ovvero i due attori principali. Io voglio mostrare il vero volto del denaro, che non è in sé condannabile: dipende dall'uso che se ne fa. Il denaro, come ogni cosa, può avere un volto positivo o negativo, possiamo farne un uso buono, caritatevole, o al contrario perverso.
Il tema sembra richiamare molti concetti cristiani. Eppure, più che sulla pietà la storia sembra incentrata sul desiderio di vendetta, sentimento umano ma non certo cristiano...
E' errato vedere il film come incentrato solo su alcuni elementi: questo è un film che vuole raccontare il tutto, l'essenza umana, e che forse vuole recuperare questa essenza e parlare anche di salvezza.
Come ha trattato il look dei due protagonisti?
Quello dell'interprete femminile Jo Min-Su lo abbiamo discusso e deciso insieme a lei: specie con riferimento al colore rosso, colore della sofferenza e del sangue. Stessa cosa per il protagonista maschile Lee Jung-jin, che pur mantenendo un livello di bassa estrazione sociale, conserva elementi quasi 'militari'. C'è una parte di terrore insita già nel suo abbigliamento.
Lee Jung-jin: Io, prima di questo ho fatto un film d'amore, quindi tutte le donne coreane mi hanno conosciuto con un ruolo romantico, in cui interpretavo un personaggio sensibile, gentile... chissà cosa penseranno di me ora, dopo la visione di questo film, sono molto curioso! Per quanto riguarda la recitazione, posso farvi l'esempio di un goleador che però non fa gol in ogni partita: la sua capacità è data anche dal gioco di squadra, e anche per me, in questo caso, il risultato della mia interpretazione stato reso possibile da un lavoro di squadra.
Che regista è Kim Ki-duk? Lee Jung-jin: Voi lo vedete spesso come un regista misterioso, complesso, di non facile approccio. Così è considerato anche in Corea, e devo dire che questa proposta di lavorare con lui all'inizio mi spaventava, proprio per la sua fama di autore oscuro, difficile. Invece mi sono divertito molto, ho potuto tirar fuori delle parti di me e delle potenzialità inespresse. Lui dice che i suoi film raccontano la realtà, che i suoi non devono essere per forza film belli o di puro godimento: qui, quelli del film sono gli occhi attraverso cui io guardo la realtà, quindi non dovevo fare scene belle con lui ma scene reali.
Esiste davvero il quartiere ritratto nel film, ed è davvero così degradato? Kim Ki-duk: Il luogo esiste, certo. Ci ho lavorato e vissuto dai 15 ai 20 anni, facevo l'operaio: è una zona importante dal punto di vista industriale, è qui che è nata l'information technology coreana. E' stato grazie all'esistenza di questa zona che ora possiamo avere telefonini, tv, elettrodomestici, e tutti gli oggetti per cui la Corea è famosa nel mondo. Credo comunque che nell'arco di pochi anni quella zona scomparirà, e quegli edifici bassi saranno sostituiti dagli enormi palazzi simbolo del capitalismo coreano. Nei miei film, di solito, i luoghi sono molto importanti: anche qui, l'importanza è storica e insieme narrativa.Nei suoi film, spesso il protagonista è un emarginato che si evolve. Qui, invece, il protagonista diventa vittima della società di cui è stato carnefice.
Ma il film non è costruito su una figura particolare: i miei film sono interpretazioni del mondo per come lo vedo io in quel momento. I protagonisti sono ogni volta diversi perché rappresentano momenti diversi della nostra storia.
Lo spazio del film è intriso di storia, di nostalgia per una realtà che va scomparendo. Kim Ki-duk: Lo spazio è 'analogico', è pieno di storia, è il luogo da cui tutto comincia. I protagonisti invece sono 'digitali': sembrano non avere memoria, radici, ma solo l'interesse per il denaro.
C'è anche un dialogo tra cristianesimo e buddismo. Sono due religioni a cui lei è interessato?
Io non ho pregiudizi o prevenzioni verso nessuna religione. All'epoca di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera si parlò di film buddista, di La samaritana si scrisse che era protestante, questo ora viene definito cattolico: in realtà sono definizioni riduttive, io ho una mia religione ma non l'ho mai voluta esplicitare.
Sì, questo per me è un nuovo inizio. Credo che proprio il fatto di aver girato Arirang mi abbia poi permesso di girare Pietà.
Qual è la forza del cinema coreano attuale, e quella del cinema di Kim Ki-duk?
In genere in Corea si parla di me come del regista famoso in Europa. La stessa affermazione però può essere letta al contrario: può cioè significare anche che in Corea il mio cinema non è ancora molto noto. La mia produzione in realtà continua a trovare poca sistemazione, poco spazio nel nostro mercato cinematografico: questo è fatto soprattutto di cinema di intrattenimento e di commedie, prodotte soprattutto dalle major. Credo che questo sia un vero peccato. Però c'è anche un pubblico di appassionati che mi seguono, che sono affezionati al mio lavoro: spero comunque che con questo film le cose stiano iniziando a cambiare, e che anche le major inizino a interessarsi ai miei film.