Vedendo A House of Dynamite non sembra che Kathryn Bigelow sia in procinto di spegnere 74 candeline, anzi. La regista ha firmato una nuova evoluzione del war movie, che guarda al cinema del passato e in un certo senso chiude un ipotetico cerchio che la regista aveva aperto ormai 23 anni fa, giungendo a delle conclusioni che probabilmente non si sarebbe mai aspettata. Il titolo parte come sempre dalla riflessione su come la guerra sia la modalità di codificazione ideale per leggere il momento storico degli Stati Uniti e poggia sulla tipica lucidità della regista, tanto nei giochi metaforici quanto nella ricostruzione per filo e per segno dei meccanismi operativi.
Si tratta di un'ennesima testimonianza: non esiste una regista (o un regista) che è stata in grado di farsi termometro della temperatura interna degli Stati Uniti più di lei nel corso del XXI secolo, arrivando a sfidare apertamente retorica e ingranaggi mentali dell'opinione pubblica interna del Paese. Questa volta, nonostante dei rischi dal punto di vista della costruzione concettuale e dell'opacità del momento attuale, non fa eccezione.
Kathrin Bigelow e il war movie
Il primo approccio al war movie per Kathryn Bigelow è stato, incredibilmente, al di là della Cortina di ferro, quando nel 2002 decise di raccontare la storia dell'incidente mai raccontato del K-19 nell'Artico. Un sottomarino costruito in fretta e furia dall'URSS quando gli Stati Uniti testarono con successo le loro prime unità navali sommergibili in grado di lanciare testate nucleari. Questioni di fallimento della deterrenza, esattamente come in A House of Dynamite, anche se lì era in piena costruzione.
La pellicola si chiamava appunto K-19, aveva per protagonisti Harrison Ford e Liam Neeson (nei panni dei russi) e, come spesso è accaduto alla regista, non fu assolutamente ben accolto. Esperienza in un certo senso ripetutasi con il suo film successivo, The Hurt Locker, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2008. Quello che poi la fece diventare la prima donna a vincere l'Oscar per miglior regia - davanti al suo ex James Cameron - e che la rese il più importante specchio del suo Paese quando si tratta di leggerlo attraverso le lenti della guerra.
Il titolo delinea la capacità della regista di creare un impianto da war movie statunitense per delineare una mappa immaginifica dove affrontare la tesi del momento, che è sempre culturale, sociale e psicologico, e spesso scritto a chiare lettere: "la furia della battaglia provoca dipendenza totale perché la guerra è una droga". Questo intento passa dalla sua enorme capacità di far convivere un realismo estremo - quasi da cinema reportage - con un altrettanto imponente portata metaforica. La credibilità di questo equilibrio è ciò che le permette di portare in uno scenario bellico la vita di una nazione fino a farle coincidere.
Come si arriva a A House of Dynamite
Sulla continuazione di questa linea viene costruito Zero Dark Thirty. La lunga notte degli USA post 11 settembre, costretta a rinunciare alla propria anima in nome del Bene e a mettere a repentaglio la propria identità per stanare il nemico invisibile. Un Paese che non riesce più a tornare a casa senza portare la guerra con sé, per quando possa provare a chiudere la porta o le sacche dei cadaveri dei nemici.
Detroit, il film successivo, riflette su quest'ultimo aspetto, andando all'origine della divisione sempiterna di una Nazione che lo era tanto nel 1967 quanto oggi. Uno sguardo all'indietro per parlare di una questione atavica e di una necessità di brutalità e sopraffazione costantemente in procinto di esplodere e inondarla come fu negli anni della Guerra Civile. Un controcampo rispetto al resto della sua filmografia, quasi per parlare della necessità esistenziale di esportare la guerra. Un modo per buttarne un po' oltre confine.
Oggi gli USA di Kathryn Bigelow si sentono ostaggio di quella guerra che è stata la loro propulsione. A House of Dynamite non è un war movie senza nemico, ma "senza war", come se anche la sua vista sia divenuta insostenibile. Concessa è solo la visione lontana, la rappresentazione mappata del reale, che però c'entra poco con la realtà. Stati Uniti che si percepiscono come un ex superpotenza, vittime della corsa alla deterrenza da loro stessi innescata alla fine del Secondo Conflitto Mondiale. La guerra è divenuta per loro paranoia, ansia da persecuzione, follia inconcepibile. Una colpa da cui fuggire, come se fosse possibile.