Quindici anni fa, nel 2010, Gareth Edwards esordiva nel lungometraggio con Monsters. Oggi, quindici anni dopo, ha lasciato il segno in alcune delle più importanti e storiche saghe cinematografiche. Nel 2014 dirige Godzilla, primo film di quello che sarà poi il revival del MonsterVerse. Nel 2016 gli è affidato Rogue One: A Star Wars Story, il più amato da critica e pubblico del nuovo corso della galassia lontana lontana. Nel 2023 passa per l'opera originale The Creator, mentre ora è il turno di Jurassic World - La rinascita, tentativo di ripartenza di un franchise che non si è davvero mai fermato.

E nel titolo il film porta "rinascita" forse per una volontà di tagliare di netto con l'eredità recente. Una trilogia (Jurassic World, Il regno distrutto, Il dominio) capace di incassare complessivamente circa quattro miliardi di dollari, ma allo stesso tempo spremuta fino all'ultima goccia e infine svuotata di ogni traccia di valore artistico e di intrattenimento che non fosse quello sospeso tra un generico polpettone d'avventura e uno stirato effetto nostalgia.
Autore o esecutore?
Dopo The Creator, mettersi al timone di un altro progetto a grande budget non era negli immediati programmi di Edwards. Quando è arrivata la chiamata, il regista ha però ammesso a Collider che quello sarebbe stato "l'unico film capace di farmi mollare tutto come un sasso e tuffarmici dentro". Britannico, classe 1975, d'altronde non ha mai fatto mistero di annoverare George Lucas e Steven Spielberg tra le influenze più importanti per la propria formazione da filmmaker. Se col primo aveva già lavorato, come poter declinare l'investitura del secondo?

Allora eccoci qui. Con l'uomo giusto al posto giusto. Perché la scelta di Edwards non è quella di un mestierante di livello di inserire all'interno di una catena di produzione. Sappiamo come funzionano i blockbuster da centinaia di milioni di dollari. Vengono assemblati a tavolino con precisione chirurgica: un copione che catturi delle sensazioni note, sul quale torna David Koepp, sceneggiatore del Jurassic Park originale (e ultimamente collaboratore di Steven Soderbergh); un cast di star su cui far leva in ottica marketing, come in questo caso Scarlett Johansson, Jonathan Bailey e Mahershala Ali; un regista che faccia da mediatore tra la sceneggiatura e quella che sarà poi una dose massiccia di effettistica visiva.
E se il film poi non funziona, spesso non funziona perché si è sbagliato qualche tipo di dosaggio durante questa lavorazione industriale. La stessa posizione da regista per Jurassic World - La rinascita fu definita "più da esecutore che da autore", volendo i produttori avere più controllo creativo dopo i responsi negativi de Il dominio. Eppure la scelta di Edwards, ricaduta su di lui perché ritenuto il suo stile visivo ed artistico in linea con l'atmosfera originale di Jurassic Park, riesce a ritagliarsi una dignità ed un'incisività persino all'interno di uno steccato così rigido.
L'importanza del fuoricampo
In quest'opera, la settima della saga, c'è davvero molto del suo cinema. Impossibile, ad esempio, non pensare alla giungla. Un elemento fondativo di Jurassic Park e che è ricorrente nella filmografia di Edwards. Uno spazio cinematografico che ha attraversato tutti i lavori del regista, il quale ha sceneggiato però solo Monsters e The Creator. Una dimensione che dall'esotico alimenta il senso dell'esoterico: lì dentro albergano desideri, rimossi, speranze. La cornice di un cuore di tenebra dove il viaggio spesso risuona nell'interiore, prima di schiudersi all'emozione che sta sempre a contraltare di uno stupore catartico - o sublime - nell'immagine di immense creature, di fenomeni dirompenti, di drastici sconvolgimenti.

In concerto a questo c'è il lavoro con il fuoricampo. Edwards l'ha utilizzato per la prima volta in Monsters, con una scelta figlia del motto 'fare di necessità virtù'. Una pellicola girata con una crew che definire risicata è farle un complimento, formata da sole cinque persone più i due interpreti principali del film. Un imprinting che ha lasciato il regista con la consapevolezza di poter rovesciare fuori dall'inquadratura l'inquietudine, il rumore di fondo, i grandi movimenti.
E di rimando poter instaurare con quel di fuori un dialogo al rovescio, accumulando dentro i margini di ciò che si vede i mondi intimi, le tensioni umane, l'empatia. Così da creare un accrescimento che viene a rilasciarsi con ancora maggiore forza emotiva e simbolica quando quel fuoricampo è accolto dallo sguardo, come nel finale di quell'esordio.
Una cifra stilistica ricorrente
Un'esperienza che ricorre come chiave artistica vincente in Godzilla, scritto da Max Borenstein, dove il kaiju non compare se non per minime porzioni. Anche quando c'è, non c'è. Edwards lo staglia sugli sfondi, ne annuncia la presenza a partire dal suo distruttivo trascinarsi. Una tecnica di lavoro sulla suspense sintetizzata dal primo blockbuster della storia del cinema, nonché un monster movie: Lo squalo. Ancora Spielberg, un altro che nel film del 1975 si arrangiò a relegare la creatura lì dove non poteva vedersi poiché l'animatronic creato per l'occasione era vittima di continui malfunzionamenti.

C'è un po' de Lo squalo anche in Jurassic World - La rinascita, nella prima porzione ambientata interamente in mare. Torna anche qui un lavoro spostato molto nel fuoricampo, celato al facile accesso dello sguardo che tutto vuole e tutto divora. Il Distortus Rex, il nuovo terrore genetico che fa da 'boss finale', si aggira nella nebbia, si muove nell'oscurità. Lo si illumina di rado, con luci o fumogeni rossi: proprio come in Godzilla.
È una piccola rivoluzione: la trilogia precedente di Jurassic World alla voracità dello sguardo cedeva tutto. Bombardava l'occhio con mondi di plastica e un teatro pirotecnico con cui stordire, mai ammaliare. Probabilmente merito anche della familiarità del regista con l'effettistica visiva, ambito in cui ha lavorato per anni, e che qui è integrata con naturalezza ed organicità.
L'importanza dello stupore
Ecco, Edwards rimarca una cosa semplice ma fondamentale: il monster movie è stupore, e lo stupore si ottiene sottraendo. Non serve addizionare in maniera esponenziale, non serve cercare la sbornia che pialla tutto e anestetizza ogni genuino entusiasmo. Occorre che altre opere come queste ritrovino la tenacia artistica di ridurre, di fare economia dello sguardo. Edwards ci riesce, anche a fronte di un copione comunque ancora una volta tutt'altro che brillante.
Una sequenza è esemplare del suo modo di intendere il cinema. È quella in cui i protagonisti incontrano una mandria degli immensi erbivori che stavano cercando. Da una parte c'è il tentativo di rievocare ed omaggiare una delle scene più emozionanti della storia del cinema, in cui Alan Grant e Ellie Sattler vedono per la prima volta dinosauri viventi in Jurassic Park. Dall'altra sta il desiderio sincero, a cuore aperto, di abbandonarsi ad un momento simile. In cui ogni cosa si ferma, le star si ridimensionano e l'inquadratura sconfina in un campo lungo che accoglie la grandezza di scala della commozione fanciullesca.
Gareth Edwards insomma ce lo teniamo stretto. Uno dei pochi registi ad aver capito tutto di cos'è e di cosa deve essere oggi un monster movie, di come si può lavorare ad Hollywood senza svilire il proprio stile e senza rinunciare a mettere anima ed emozione anche lì dove sembra impossibile che possano stare.