Dall'altra parte della cornetta un accento toscano, sferzato, qua e là, da diversi inglesismi, pronunciati con una perfetta sfumatura anglosassone. Potremmo dire che Julia Messina, classe 1993, è un'attrice matura, responsabile nel suo percorso artistico e, senza dubbio, decisamente preparata. Ha respirato Londra per otto anni, trovando la sua dimensione d'attrice - "più naturale rispetto ai ritmi italiani", ci dice al telefono - recitando a teatro e frequentando le migliori accademie inglesi: ArtsEd, Mountview, Bristol OldVic, Central School of Speech and Drama e LAMDA, nel quale si laurea con il massimo dei voti. "Peccato solo che di mezzo c'è stato il Covid, avrei potuto godermela di più", continua Julia, che abbiamo visto nella serie-kolossal Those About to Die di Emmerich, in un guest role per The Crown e, adesso, la troviamo sulla Rai con Belcanto e Miss Fallaci.

Due grandi occasioni, vista la portata di pubblico. "Ho investito tanto in Vera per Belcanto", prosegue Julia Messina, mentre si prepara un caffè. "È un personaggio che inizialmente doveva avere più spazio, poi è stato accorciato un po'. Dietro c'è un casting importante per un progetto italiano al cento per cento, in costume. Poi è targato Rai, e curato da Carmine Elia, un regista che stimo".
Julia Messina: la nostra intervista all'attrice

Con l'attrice, con cui abbiamo chiacchierato per mezz'ora, siamo partiti proprio dal suo viaggio londinese, e su quanto lo studio sia importante ma non fondamentale. Tutto parte dall'intuizione. "Lo studio non arriva dove arrivano l'ascolto e nell'intuizione", spiega. "Lo studio incoraggia l'ascolto, poi dipende dalla tecnica e dalla disciplina. Molto viene da noi, dalla nostra capacità di ascoltare. Questo, va allenato con la consapevolezza. È un muscolo. La consapevolezza arriva con la crescita, con un percorso, e con la psicoterapia. Il confronto allena, poi si sceglie se voler essere profondi o superficiali. Se scegli di fare l'attore affondando le mani in pasta è essenziale allenarsi quotidianamente".
Sugli anni di studio confida che "La fase accademica è bella, ci tornerei subito. Durante il Covid, però, è stato più complicato, anche se in Inghilterra non era tutto serrato come in Italia. Ora cerco di trovare un supporto attorno al lavoro dell'attrice. Prima di un certo scatto professionale tutti gli attori si nutrono di altro". Quanto è complicato far co-esistere il lavoro e la passione? C'è una differenza: "Vocazione e passione, questo può essere un punto. La musica per me è una passione, e non ho mai pensato farne un lavoro. È un hobby. Con la recitazione è diverso: anche fare pubblicità, o la fiction mainstream, per me è professione. La musica vorrei restasse una passione, canto il blues e il rock. Però per me è più facile commercializzare la recitazione". Va da sé che non possiamo non chiedere quali siano i suoi gusti musicali, e cosa si diletta a cantare: "La discografia degli Zeppelin, anche se sono più glam rock. Stevie Ray Vaughan, John Mayer, Janis Joplin, Rolling Stones con il rock blues".
Uno sguardo internazionale
Progetti italiani e progetti internazionali, con una differenza sostanziale: nel Regno Unito fare l'attrice è una professione normalizzata: "A Londra essere attori è abbastanza normale. La professione non è messa sul piedistallo rispetto alla percezione esterna. Per dire, l'ufficio stampa in Regno Unito è riservato solo alle grandissime star. Se gira il tuo nome, però, ci sono più probabilità di essere presa durante i casting. Questa è una differenza che noto tra l'Inghilterra e l'Italia. È un approccio britannico, un principio culturale che ti fa un po' chinare il capo. E non è solo questione di fama, ma di immagine professionale. Frequentare certe accademie, per dire, ti permette di avere un certo lustro. In Inghilterra il lavoro è più tutelato, ecco. Penso ad Equity UK, un sindacato che tutela il nostro lavoro".

Certo, oltre Manica, come da noi, la professionalità resta il punto di contatto: "La professionalità c'è sia in Inghilterra che in Italia. Le modalità del sistema gerarchico, per la struttura di un progetto. Da come si comunica con la produzione, fino al rapporto con i reparti. A livello di struttura è tutto molto simile, anche rispetto al cast. Scattano poi alcune differenze, come il budget e le tempistiche" racconta Julia Messina.
Le ispirazioni
Tuttavia, secondo l'attrice, c'è una specie di diffidenza verso quegli attori che si sono formati all'estero. "Quando spieghi il tuo percorso accademico c'è curiosità, ma c'è anche un approccio orgoglioso, e molto italiano. Diventiamo campanilisti quando un italiano fa successo all'estero. Questo per dire, a cose fatte, e venendo dall'estero con qualcosa di già fatto e costruito, che ti rende più complicata la partenza artistica. Sono pochi del settore a capire un certo background rispetto alle accademie che ho fatto. Si tende a coltivare in parte il talento nato e costruito in Italia. Anche perché qui è più difficile entrare nelle Scuole di cinema".
Ma qual è stata la prima fonte d'ispirazione per Julia Messina? "Per me è scattato tutto con Caitríona Balfe, protagonista di Outlander. L'ho scoperta nel mio primo periodo londinese, nel grigiore assoluto. La cito oggi dopo, Eva Green, Rachel Brosnahan, Kate Winslet, ma è stata lei che mi ha ispirato: è riuscita a diventare attrice non da bambina, ma quando ormai era matura. Un incoraggiamento verso coloro che vogliono diventare attori ad un età più matura, e non a diciotto anni", e prosegue, "l'Italia non è un paese per i giovani poco intraprendenti, anche se non siamo incentivati rispetto alle arti, o semplicemente non viene aiutato chi è single e vive da solo. Parallelamente abbiamo tanti mezzi per muoverci in cambiare le cose".