In un'ideale antologia dei più importanti coming of age cinematografici di sempre, a Inside Out spetterebbe senz'altro un posto di primo piano. Del resto, dell'ultimo gioiello targato Disney Pixar si è già detto e scritto tantissimo, e con tutta probabilità si continuerà a dire e scrivere in abbondanza anche in futuro; come è giusto che sia per un film che ha stabilito nuovi parametri a livello di originalità, di solidità narrativa e di messa in scena, e non solo nel campo dell'animazione.
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Alla radice della formidabile riuscita della pellicola sceneggiata e diretta da Pete Docter, con la collaborazione di Ronnie del Carmen, risiede uno spunto tanto semplice (almeno in apparenza) quanto efficace: indagare i meccanismi della mente umana attraverso le irresistibili personificazioni dei principali sentimenti che si agitano dentro ogni individuo, spesso in armonia ma talvolta in contrasto l'uno con l'altro. La vicenda di Riley, una ragazza di undici anni la cui serenità è turbata dall'improvviso trasloco della famiglia a San Francisco, viene raccontata pertanto mediante le avventure delle cinque emozioni basilari che abitano il cervello della bambina: Gioia, Tristezza, Rabbia, Disgusto e Paura.
Un film che parla a ciascuno di noi
Ma a rendere Inside Out uno dei maggiori capolavori dell'animazione di ogni tempo non è soltanto la forza del soggetto di partenza, né tantomeno aver saputo sfruttarne appieno le innumerevoli potenzialità. Il vero segreto del successo di Inside Out, ciò che gli ha permesso di arrivare dritto al cuore degli spettatori, è la sua capacità di rivolgersi a ciascuno di noi, permettendoci di riconoscere nell'esultanza e nei tormenti della piccola Riley le stesse gioie e le stesse sofferenze che tutti abbiamo provato nel corso della nostra infanzia - e che, ci si augura, non abbiamo cessato di provare, a undici anni come a novanta. A questo punto si potrebbe obiettare che tutti (o quasi) i film d'animazione, specialmente nell'ambito mainstream, sono concepiti come racconti di formazione, volti quindi a catturare l'empatia del pubblico; in cosa, dunque, si differenzia Inside Out? Perché l'opera di Pete Docter rappresenta un vertice assoluto dell'odierno cinema d'animazione?
Per provare a dare una risposta occorre ampliare per un momento il punto di vista, collocando Inside Out nel contesto di quella straordinaria cornucopia di invenzioni geniali e di storie memorabili costituita dalla Disney Pixar. Nell'arco degli ultimi vent'anni (dal 1995, con lo splendido Toy Story), la Pixar ha rivoluzionato il concetto stesso di "narrazione animata", arrivando con il tempo addirittura a superare il colosso Walt Disney in quanto a innovazione ed energia creativa e delineando, anno dopo anno, un itinerario filmografico costruito attorno ad una precisa idea di poetica. Da Monsters & Co. ad Alla ricerca di Nemo, da Gli incredibili a Ratatouille, per citare solo alcuni fra i suoi "pesi massimi", la Pixar ha oltrepassato il consueto modello fiabesco o favolistico alla radice dei classici Disney per sperimentare strade sempre nuove e, soprattutto, per elaborare riflessioni di sorprendente densità su vari aspetti della natura umana. Ed è una delle ragioni, forse la ragione primaria, per cui i film della Pixar riescono a parlare ad un pubblico infantile così come ad un pubblico adulto, trascendendo qualunque vetusta etichetta di "film per ragazzi".
Rivoluzione Pixar: WALL·E, Up e la sinfonia della solitudine
Dall'universo dei giocattoli pulsanti di vita propria della saga di Toy Story, alla cui stesura ha partecipato lo stesso Pete Docter, allo spettacolare corto circuito fra la realtà e la dimensione onirica e dell'inconscio di Monsters & Co., primo film da regista di Docter, con l'interazione fra la piccola Boo e i simpatici mostriciattoli Sulley e Mike, la Pixar si è specializzata nell'amalgama fra mondi diversi, con una stratificazione di piani narrativi che ritroviamo pure in Inside Out - ancora una volta, il mondo reale e il mondo interiore intenti a 'dialogare' per tutto il corso del film. Ma un altro trait d'union di molte pellicole della Pixar è il coraggio di affrontare tematiche più complesse e, per certi versi, perfino difficili, benché con un linguaggio perfettamente fruibile anche per gli spettatori più giovani: ecco dunque, a partire dal 2008, un'ulteriore svolta grazie al magnifico WALL·E di Andrew Stanton, in cui dietro la veste di fiaba ecologica a tinte sci-fi, con tanto di un sublime incipit completamente privo di parole, prende forma un tenerissimo racconto sul nostro senso di solitudine e sul valore dell'arte e del cinema (la videocassetta di Hello, Dolly!) come veicoli di felicità e di speranza.
Da WALL·E in poi, la Pixar ha continuato ad "alzare il tiro", spingendosi in territori fino ad allora poco o per nulla battuti dall'animazione occidentale; e appena un anno dopo WALL·E, nel 2009, ecco arrivare Up, secondo cimento alla regia di Pete Docter. Pure in questo caso, ad aprire il film è un prologo commovente e bellissimo, ma fino a qualche anno prima pressoché impensabile per una pellicola d'animazione rivolta prevalentemente a bambini e adolescenti: una panoramica della vita di una coppia, Carl ed Ellie Fredricksen, impegnata a invecchiare insieme fino alla morte della donna. L'idea stessa di porre al centro della storia un vedovo ottuagenario, con sembianze ricalcate su quelle di Spencer Tracy, racchiude in sé una sfida ambiziosissima: far immedesimare gli spettatori con un protagonista anziano, vittima degli acciacchi dell'età, alle prese con il lutto per la scomparsa della moglie e con i rimpianti per avventure mai vissute. Un protagonista che, nel finale del film, porterà a compimento la propria elaborazione del lutto, accettando di distaccarsi una volta per tutte dalla casa in cui aveva abitato con Ellie per più di sessant'anni; "È soltanto una casa", dichiarerà serenamente Carl, mentre l'abitazione viene inghiottita dalle nuvole.
Toy Story 3: dire addio al passato
Se i predecessori di Inside Out avevano segnato un ritorno della Pixar a modalità narrative più convenzionali (Cars 2, Ribelle - The Brave) o a sentieri già battuti in passato (il prequel Monsters University), un capitolo fondamentale del cinema d'animazione era stato scritto nel 2010 da Toy Story 3 - La grande fuga, terzo capitolo della serie cominciata nel 1995, diretto da Lee Unkrich su una strepitosa sceneggiatura di Michael Arndt; una sorta di "film gemello" di Inside Out, per i motivi che ora andremo a spiegare. Con una doverosa premessa: per chi scrive, e in generale per chi è nato negli anni Ottanta, Toy Story è stato una delle pietre miliari dell'infanzia (così come il fortunato sequel del 1999, Toy Story 2). Già solo in questa ottica, ritrovare il cowboy Woody, l'astronauta Buzz Lightyear e gli altri giocattoli di Andy a quindici anni di distanza ha significato confrontarsi con un background emozionale non indifferente: chi nel 1995 aveva più o meno l'età di Andy, nel 2010 era ormai un "giovane adulto" con una nuova prospettiva su se stesso e sul mondo.
Ed è appunto tale cambiamento di prospettiva a rendere Toy Story 3 un'opera assai più profonda e coinvolgente rispetto ai già ottimi capitoli precedenti: perché Toy Story 3 è in primo luogo un film sul rapporto fra presente e passato, sulla necessità di salutare la propria infanzia per inoltrarsi nella vita adulta e sulla consapevolezza - a tratti dolorosissima - che nessuna stagione può durare all'infinito. La parabola di questi giocattoli ormai "pensionati", riposti in uno scatolone ma nonostante tutto ancora fedeli alla loro missione (essere lì per Andy), incuranti del proprio anacronismo, è quanto di più struggente il cinema animato ci abbia mai mostrato a proposito dell'ineluttabilità dello scorrere del tempo. E quel finale meraviglioso, con l'ultimo addio fra Andy e i suoi giocattoli, sintetizza come meglio non si potrebbe il congedo definitivo dall'infanzia e dall'adolescenza: un "rito di passaggio" che ciascun adulto ha dovuto attraversare, e che in Toy Story 3 riesce a farci versare lacrime a volontà ad ogni nuova visione.
"Portala sulla luna per me": Inside Out e l'elogio della tristezza
È tale riflessione sul tempo e sulle varie fasi dell'esistenza ad accomunare il film di Lee Unkrich e Inside Out, riportando lo spettatore nel pieno dell'infanzia: se in Toy Story 3 Andy era un diciassettenne in procinto di lasciare il nido familiare e di partire per il college, in Inside Out Riley è un'undicenne che per la prima volta sperimenta la sensazione di sradicamento, l'abbandono di un ambiente conosciuto e rassicurante (la sua casa in Minnesota) per essere catapultata in una realtà ignota e a tratti addirittura minacciosa. È l'esperienza traumatica che funziona da motore narrativo del film, innescando una catena di dubbi, di angosce e di conflitti interiori in grado di alterare l'equilibrio del Quartier Generale della mente di Riley, dominato fino a quel momento dalla soave letizia di Gioia. Ed è emblematico che siano proprio Gioia e Tristezza, i due poli opposti dello spettro delle emozioni umane, gli attori primari di questo rocambolesco viaggio nel labirinto dei ricordi di Riley, nonché nel subconscio della bambina (i set della Dream Productions, ennesima trovata da manuale di Docter e dei suoi co-sceneggiatori).
A simboleggiare il legame fra Riley e la sua infanzia è il più incantevole personaggio incontrato da Gioia e Tristezza nel loro percorso: Bing Bong, il delizioso elefantino rosa al quale spettava il ruolo di amico immaginario della bambina. Ed è inutile sottolineare come l'apice della commozione dell'intero film sia proprio l'ultima scena fra Gioia e Bing Bong nell'abisso della memoria. "Portala sulla luna per me", mormora Bing Bong poco prima di svanire per sempre dai ricordi di Riley: di rado il cinema è stato capace di raggiungere simili vette di poesia con altrettanta semplicità, o di toccare le corde dell'animo con tale maestria. Bing Bong, così come Woody e Buzz, è l'appiglio a cui rinunciare per poter crescere; l'abbraccio saldo e confortevole da cui non vorremmo mai separarci, ma che a un certo punto bisogna sciogliere per proseguire il cammino.
Basterebbe già questo a suggellare Inside Out come uno dei più bei film degli ultimi anni, ma c'è ancora di più... perché il lungometraggio di Pete Docter, con una coerenza impeccabile e un'onestà tale da spazzar via qualunque blanda retorica sull'happily ever after, ci consegna nell'epilogo uno dei messaggi più coraggiosi mai veicolati da un'opera d'animazione: ovvero, un'apologia della tristezza come componente inscindibile della nostra identità di esseri umani. Perché crescere, anzi vivere, significa innanzitutto questo: imparare a soffrire e a convivere con questa sofferenza. Non certo all'insegna di un indistinto pessimismo, ma in quanto la sofferenza, la tristezza e la malinconia fanno parte di noi, allo stesso modo in cui ne fanno parte la felicità, la gioia, la rabbia, il disgusto, la paura, in milioni di sfumature differenti: perché è la tristezza, tanto quanto la gioia, che ci rende possibile provare emozioni, piangere, innamorarci, diventare grandi, e saper riconoscere quei rari, inestimabili momenti di felicità... le preziosissime sfere dorate alle quali, per poter brillare davvero, occorre anche un tocco di blu.