Incontri
Un coltello nascosto dietro la schiena che d'improvviso esce allo scoperto per affondare nella carne del nemico. La prima immagine de L'orizzonte degli eventi poco rappresenta un film che non va oltre qualche graffio di sbieco in superficie, che parte bene, ma si sgretola troppo presto, fino al rovinoso naufragio del finale. Ed è un vero peccato, perché in partenza le condizioni per tirar fuori un buon film c'erano tutte. Le ambizioni di Daniele Vicari, al suo secondo lungometraggio dopo il dignitoso e più immediato Velocità Massima, si rivelano fin dalle prime battute, con scelte registiche interessanti, un montaggio atipico e l'originalità dei contenuti, non fosse altro che per la professione che svolge il suo protagonista, un fisico nucleare. Siamo dentro il Gran Sasso, in un laboratorio dove un gruppo di esperti sta studiando i neutrini solari. A capo del progetto denominato Helios è Max (Valerio Mastandrea), un trentacinquenne romano che ha preferito rompere ogni contatto con la famiglia pur di non restare invischiato nelle sue attività losche. Ora che suo padre è morto, la difficile elaborazione del lutto ne mette a nudo tutte le debolezze. Max si ritrova a fare i conti con lo spettro della solitudine e, incapace di sopportare il peso delle responsabilità, consuma indolente un doppio tradimento: quello ai danni della compagna Anais (Gwanaelle Simon), una delle ricercatrici dell'esperimento Helios, che tradisce con una collega, e l'altro verso quello stesso progetto del quale modifica i risultati. Scoperto e tormentato dall'immagine del padre morto, Max tenta il suicidio, andandosi a schiantare sulla superficie rocciosa della montagna.
E' a questo punto che il film, finora rinchiuso nello spazio claustrofobico interno al Gran Sasso e nel cervellotico tecnicismo dei dialoghi, cambia improvvisamente rotta, imboccando purtroppo una strada sbagliata. Difficile contare i difetti che caratterizzano la seconda parte de L'orizzonte degli eventi, nella quale si fa chiaro il suo tema, ed è inaspettato considerate le (eccessivamente lunghe) premesse. Max, salvato da Bajram (Lulzim Zeqja), un pastore albanese schiavizzato da un'organizzazione malavitosa che gestisce il traffico di manodopera, viene a contatto con una realtà di cui ignorava l'esistenza, fatta di sudore e miseria. Postmodernità e condizione premoderna si incrociano, un incontro che muta ogni cosa. Le tonalità blu che avevano caratterizzato la fotografia della prima parte del film scoprono il verde dell'erba che brucano le pecore di Bajram. Vicari cambia registro e usa i suoi personaggi per riflettere su immigrazione e schiavismo e sul rapporto tra culture differenti, così vicine, così lontane, nell'era della globalizzazione, temi che il regista aveva già affrontato in Uomini e lupi, un documentario girato nel 1998 che indagava la condizione d'isolamento dei pastori macedoni sul Gran Sasso.
Il passaggio dal microuniverso del personaggio di Max ad un discorso più universale è un guizzo narrativo interessante che ci porta per una volta fuori dal solito pantano del cinema italiano, autodefinitosi degli "affetti speciali" per giustificare la sua povertà di idee, ma lo sviluppo è sbagliato e il film non si apre mai. Vicari gioca a fare l'autore testando le sue capacità di regista, eliminando la parola a favore delle immagini, ma, imbambolato dall'alienante fascino del territorio del Gran Sasso, si dimentica completamente della storia e lascia Mastandrea (la cui pochezza espressiva è scandalosa) vagare a lungo senza meta per quelle terre desolate, comandandogli lacrime a cui tralascia di dare un significato. La lentezza esasperante della parte finale del film risulta particolarmente indigesta perché il suo senso è completamente svuotato dall'invisibilità dell'attore romano e dalla regia compiaciuta di Vicari. La coppia che aveva funzionato bene in Velocità Massima, chiamata qui ad una prova più impegnativa, non regge il peso che un film pretenzioso come L'orizzonte degli eventi carica sulle loro spalle e tutto il buono che si intravede in questo lavoro si sgretola a causa del narcisismo di uno e dei limiti dell'altro.