Un uomo. Una stanza. Le persone che la visitano, una dopo l'altra, in cerca di un ascoltatore solidale, di un parere esperto, di una possibile guarigione; a volte d'amore, a volte di un nemico. In Treatment, serie drammatica targata HBO e vincitrice di due Emmy, di un Golden Globe e di un WGA, è prevalentemente questo: a creare la tensione drammatica, e un legame indistruttibile con lo spettatore, ci sono tematiche di risonanza universale esplorate con finezza, intelligenza e coraggio, e interpretazioni formidabili, quella di Gabriel Byrne sopra ogni altra.
Lui è Paul Weston, un navigato psicanalista di origine irlandese che attraversa una fase emotivamente e professionalmente piuttosto difficile. La crisi lo spinge a rivedere Gina, sua antica insegnante e mentore che non vede da dieci anni, e a portare avanti con lei un lavoro che coinvolge l'esame della sua situazione familiare e dei problemi che sta incontrando con i suoi pazienti. Paul, infatti, ha in cura una bellissima trentenne in pieno transfer che sta rappresentando per lui, ai ferri corti con Kate, moglie e madre dei suoi tre figli, una tentazione difficile da ignorare; ha un altro paziente, un pilota d'aviazione, che non fa che provocarlo facendogli anche perdere le staffe in sessione, e una coppia in terapia comune che non riesce a risolvere se accettare una nuova gravidanza o gettare la spugna.
Ma i tentennamenti, le difficoltà personali e i dubbi etici non bastano a offuscare la grande umanità e la competenza di Paul, che emergono soprattutto con la più giovane dei suoi pazienti che incontriamo, la sedicenne Sophie, mente brillante e ginnasta promettente che sta cercando di nascondere un semi-inconsapevole tentativo di suicidio.
Identica struttura per la seconda stagione dello show: quattro sessioni con i pazienti il lunedì, il martedì, il mercoledì e il giovedì, all'appuntamento con Gina il venerdì. Paul sembra aver voltato pagina, ma la sua crisi professionale (e non) prosegue, e il nostro terapeuta ma è costretto a pagare le conseguenze di quanto accaduto su più fronti, trovandosi a riflettere sul suo ruolo nella vita delle persone che cerca di aiutare e sul suo futuro. Ancora una volta affronta casi difficili (ma in fondo non lo siamo tutti?), come quello di Mia, una donna da lui seguita vent'anni prima che ora annaspa in oceano di solitudine, o di Walter, ex CEO che ha trascorso la sua vita gestendo enormi responsablità e non è pronto a d affrontare la fine della sua carriera, quello del dodicenne Oliver, che sta subendo anche a livello fisico l'imminente divorzio dei genitori, o ancora quello di April, studentessa di architettura che scopre di avere il cancro e rifiuta di sottoporsi alla chemioterapia che può salvarle la vita.
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Gabriel Byrne, talento accertato, ha qui l'occasione rara di costruire un personaggio che una complessa vita interiore e un arco evolutivo decisamente lungo: le vicende di Paul, gli incontri con i suoi pazienti, l'inferno morale che attraversa, gli permettono di personificare un uomo tormentato, non sempre amabile ma sempre credibile; Byrne smaschera un'anima, l'anima, con risultati a volte assolutamente sconvolgenti. La sua controparte più distaccata è la magnifica Dianne Wiest nei panni di Gina, una terapeuta esperta, olimpica e luminosa, eppure umanissima. Tra i pazienti, da applausi è la giovanissima Mia Wasikowska, highlight della prima stagione e prossima Alice burtoniana; nella seconda stagione si sono fatti notare la bravissima Hope Davis - candidata all'Emmy quest'anno assieme a Byrne e Wiest - e un toccante John Mahoney.
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