A lezione di sceneggiatura con Hagai Levi

Nell'ambito degli incontri organizzati dal Roma Fiction Fest e dagli Scrittori Associati di Cinema e Televisione, Hagai Levi - autore israeliano dell'acclamata serie "Be'Tipul" che ha ispirato il più celebre adattamento americano "In Treatment" - ha condotto un'articolata riflessione sul mestiere della scrittura applicato alla serialità televisiva, dilungandosi con estremo dettaglio sugli aspetti artistici e sulle particolarità produttive della sua originale creazione.

A pochi giorni dall'inizio della quarta edizione il Roma Fiction Fest dimostra di essere un punto di riferimento ormai consolidato per quello che concerne il dibattito, anche a livello professionale, accesosi di recente intorno alla serialità televisiva. Sulla scia di quanto organizzato dalla sezione Extra del Festival Internazionale del Film di Roma, anche la manifestazione diretta da Steve della Casa propone degli incontri propedeutici con personalità di alto livello del mondo della fiction. Il ciclo di interventi, battezzato "Created by" e organizzato in collaborazione con gli Scrittori Associati di Cinema e Televisione, si propone soprattutto di sondare il mestiere dello sceneggiatore (o "creatore" come è definito oltreoceano), con lo scopo di attivare un canale di scambio e di confronto tra studenti e addetti ai lavori, che possa ravvivare e stimolare - ci si augura - anche lo scenario italiano.
Dopo Toby Whithouse , autore della serie britannica Being Human, il ciclo si conclude con il contributo di Hagai Levi, l'uomo che si cela dietro il successo internazionale di In Treatment, la fiction americana ambientata interamente nello studio dello psichiatra interpretato da Gabriel Byrne. Levi è, infatti, l'autore israeliano che ha elaborato il concept della serie originale, Be'Tipul, alla base in seguito di numerosi adattamenti internazionali, tra cui uno italiano in fase di lavorazione. L'idea di Levi ha, in un certo senso, qualcosa di radicale e rivoluzionario: rifiutare deliberatamente il dinamismo e la frenesia cui ci ha abituato il recente panorama della fiction per realizzare un prodotto (solo in apparenza) statico e teatrale, rigidamente ancorato all'unità di tempo e di luogo. Eppure ogni episodio, incentrato su una seduta psichiatrica con un paziente diverso per ciascun giorno della settimana, si dimostra capace si sviluppare una storia dalle forti tensioni narrative, con snodi improvvisi, colpi di scena ed evoluzioni progressive dei caratteri. Merito, ovviamente, della straordinaria qualità dei dialoghi e delle sbalorditive capacità degli interpreti, ma anche di una regia mai banale, che sa valorizzare la costruzione della scena attraverso degli accorgimenti stilistici molto cinematografici.
Intervallato dalla proiezione di alcuni episodi di Be'Tipul, l'intervento di Hagai Levi è stato una vera e propria master class, che ha approfondito tutti i nodi cruciali del mestiere della scrittura applicato alla serialità televisiva. Incalzato prima dalle domande del moderatore Marco Spagnoli, e poi dalle curiosità degli scrittori e degli studenti di cinema, l'autore non si è risparmiato nel divulgare particolari dettagliati sulla realizzazione della serie; sottolineando anche lo stretto apparentamento che esiste tra il lavoro "maieutico" dello sceneggiatore e quello del terapista. Più che una discussione, insomma, è stata una vera e propria sessione d'analisi...

Prima di tutto vorrei sapere com'è nata l'idea così originale di questa serie.
Hagai Levi: Sono particolarmente legato all'argomento, in quanto sono entrato in terapia psichiatrica sin da bambino e sono ritornato in analisi anche da adolescente e da adulto. Avevo in mente di realizzare questo progetto da parecchio tempo. Ho studiato persino psicologia per tre anni prima di iscrivermi alla scuola di cinema. Quando ho iniziato a cimentarmi con il lavoro di sceneggiatore mi sono reso ben presto conto che le scene che preferivo erano quelle incentrate sui dialoghi, che per me rappresentano l'essenza stessa di una storia. Un'altra cosa per me importante è tentare di realizzare ogni volta qualcosa di completamente innovativo. Non credo, infatti, che abbia alcun senso riproporre le stesse formule impiegate in precedenza da altri autori. L'idea di Be'Tipul è arrivata per caso (come tutte le idee). Un giorno mi sono messo a pensare che sarebbe stato interessante scrivere la storia su uno psicoterapeuta in crisi, tanto da avere bisogno di ricorrere a sua volta a un altro psichiatra.

Com'è riuscito a vendere il concept di questa serie, così particolare, ai produttori televisivi del suo Paese? Hagai Levi: Mi sono reso subito conto che, data la natura peculiare del progetto, non sarei riuscito a proporre la serie ai produttori basandomi solo sullo script, ma era necessario produrre almeno un episodio pilota. Ho dunque realizzato un pilot a mie spese (che fortunatamente, vista l'impostazione della serie, non ha richiesto un budget elevato). Dapprima ho scelto di girare una puntata incentrata sulla terapia di coppia, ma i produttori mi rispondevano che l'episodio funzionava solo perché erano coinvolti due pazienti contemporaneamente. Ho dovuto allora girare un altro pilot, questa volta incentrato sul personaggio di Na'ama. Grazie a questo, e dopo svariati tentativi, sono finalmente riuscito a convincere la rete HOT3. Dato che la serie costava poco, i produttori hanno pensato che poteva essere un ottimo show da destinare in seconda serata, magari indirizzandolo agli spettatori un po' snob! Comunque bisogna dire che in Israele le reti via cavo possono contare su milioni di abbonati e sono pronti a investire anche budget consistenti per prodotti d'avanguardia. Questo anche perché c'è una legge del mio Paese che obbliga le tv a realizzare molta fiction locale.

Qual è stata invece l'accoglienza della serie in Israele? Hagai Levi: Durante la prima settimana di messa in onda la serie ha registrato già dei buoni ascolti e ottenuto delle recensioni positive sui giornali. Ma solo con le puntate della seconda e della terza settimana è esploso un vero e proprio fenomeno. Ne parlavano tutti, anche le persone che non guardavano la serie. È nata perfino una moda per la psicoterapia (per la felicità dei dottori). Forse perché si tratta di uno dei primi show che affronta l'argomento con serietà e realismo, lontano da stereotipi o da parodie alla Woody Allen.

Come ha scelto gli attori? Erano già delle star in patria? Hagai Levi: Sì, gli interpreti erano già tutte delle grandi star in Israele, in particolare Assi Dayan (il terapista), che è anche un noto regista, sceneggiatore e produttore, e Ayelet Zurer (Na'ama), che ha recitato anche in Angeli e Demoni. In Israele è più facile lavorare con le star, perché si prestano con facilità a interpretare ruoli sia per il cinema che per la televisione. Attori di questo tipo sono in grado di catturare lo sguardo dello spettatore e sanno trasmettere tutta l'intensità e il dissidio interiore del personaggio. Si tratta ovviamente di un aspetto fondamentale per una serie come questa, che punta tutto sul dialogo e sull'interpretazione.

In che modo è intervenuto nella scrittura della serie? Hagai Levi: È una domanda molto complessa, cui tenterò di rispondere il più dettagliatamente possibile. Innanzitutto io avrò scritto solo un paio di episodi su cinquanta. Il mio lavoro non è quello di sceneggiatore della serie, bensì di showrunner, cioè colui che supervisiona le varie fasi della realizzazione. Ho contattato un mio amico per fare da sceneggiatore capo e ho reclutato anche un co-regista, perché mi sono reso ben presto conto che non sarei stato in grado di dirigere da solo tutti gli episodi. In fase di stesura sono partito da tre elementi fondamentali. Prima di tutto la creazione dei personaggi, il nucleo centrale della serie, che sono venuti fuori pian piano dopo lunghe chiacchierate con lo sceneggiatore capo. Dopodiché ho reclutato un super gruppo di sceneggiatori, tutti di enorme talento, ciascuno dei quali incaricato di sviluppare soltanto gli episodi relativi a un paziente specifico. Ma, prima ancora di elaborare la sceneggiatura, l'altro tassello cardine è rappresentato dal reclutamento del cast. La scelta degli attori, infatti, influenza notevolmente anche lo sviluppo del rispettivo personaggio e le sue caratteristiche. Abbiamo elaborato delle piccole sinossi suddivise in tre atti per ogni episodio. Ogni sceneggiatore ha sviluppato poi almeno cinque stesure della sceneggiatura relativa al proprio personaggio. Il mio lavoro è stato soprattutto di supervisione finale e di riscrittura. Gli sceneggiatori, infatti, influenzati dal loro personaggio, tendevano a scrivere la sceneggiatura dal punto di vista del paziente, mentre io ho dovuto spesso aggiungere delle battute al terapista per riportarlo al centro della storia. Dopo aver ascoltato di nuovo il parere degli sceneggiatori e avere fatto ulteriori prove, mi sono occupato infine della stesura definitiva.

Si tratta di un lavoro laborioso e complesso che, per via del suo approccio corale, sembra quasi il frutto di una terapia di gruppo... Hagai Levi: Devo dire che sotto certi aspetti il lavoro dello psicanalista e quello dello sceneggiatore sono molto simili, perché quest'ultimo cerca di comprendere le motivazioni del suo personaggio esattamente come il terapista tenta di scavare nel profondo dei suoi pazienti. L'unica differenza è che lo sceneggiatore compie un lavoro di costruzione sui personaggi, mentre lo psicanalista deve invece decostruire il comportamento del paziente. Da questo punto di vista è stata fondamentale la collaborazione con un consulente psichiatrico, nonché professore universitario di psicologia, che supervisionava le sceneggiature per controllare che non ci fossero incongruenze o errori. Tra di noi però circolava una battuta: "Se il consulente è contento, allora siamo nei guai", perché significava che lo sviluppo della storia era realistico ma mancava di svolte drammatiche. È stato necessario dare spazio alla componente narrativa di fiction, senza però travalicare il confine etico e deontologico della figura del terapista.

Che ruolo ha svolto nell'adattamento americano della serie? Hagai Levi: All'inizio pensavo che volessero solo acquisire i diritti e gestire la realizzazione per contro proprio. Invece mi hanno reclutato come consulente e supervisore delle storie (anche se ufficialmente sono definito come un "produttore esecutivo"). In realtà mi sono occupato soprattutto di adattare in chiave locale alcuni aspetti legati ai personaggi. Ad esempio il personaggio del pilota israeliano la cui famiglia è sopravvissuta all'Olocausto è stato trasformato in un pilota afroamericano il cui padre ha sperimentato le persecuzioni del Ku Klux Klan. Questo per quanto riguarda la prima stagione. Per la successiva, invece, abbiamo compiuto un lavoro più profondo dal punto di vista della serializzazione.

Può dirci invece qualcosa relativamente alla versione italiana, cui stanno attualmente lavorando gli sceneggiatori? Hagai Levi: Devo dire che sono rimasto sorpreso dal fatto che numerosi produttori televisivi da tutte le parti del mondo abbiano chiesto i diritti per adattare il format della serie, senza che io avessi mosso un dito per contattarli. Attualmente circolano ben tredici adattamenti diversi della serie originale. Per ognuno il tentativo è stato sempre quello di localizzare le storie e i personaggi, legandoli alla cultura locale. Ho prestato un'attenzione particolare alla versione italiana, anche perché io sono di origini italo-istraeliane (mio padre ha combattuto a Roma contro i fascisti). Si tratta senza dubbio di una delle migliori versioni internazionali della serie e sono stato molto colpito dalla professionalità delle persone coinvolte. In questo caso non si è trattato di una semplice traduzione della sceneggiatura, ma sono state fatte delle modifiche rilevanti sulle caratteristiche dei personaggi. Ad esempio il pilota israeliano è diventato un agente di un'unità speciale antimafia, in modo da collegare la sua storia personale con le vicende d'attualità del vostro Paese. Il supervisore italiano è Nicola Lusguardi, mentre gli sceneggiatori, ciascuno dei quali si è dedicato a uno specifico personaggio, sono Ludovica Rampoldi, Alessandro Fabbri, Stefano Saro, Ilaria Bernardini e Giacomo Dursi.

Qual è stato il criterio che ha guidato la scelta dei personaggi nel corso della serie, e che ha determinato il loro cambiamento da una stagione all'altra? Hagai Levi: Nella prima stagione i personaggi della serie originale e della versione americana sono identici. La questione più difficile da affrontare è quella di scegliere solo quattro pazienti tra una serie infinita di personaggi interessanti. Penso che il criterio guida in fase di selezione sia stato quello di individuare dei caratteri che potessero fungere da archetipi, in grado di provocare l'immedesimazione di gran parte degli spettatori, come ad esempio la coppia in crisi o la donna incapace di trovare una stabilità sentimentale.

Può dirci qualcosa sulla lavorazione della terza stagione di In Treatment, su cui la HBO sta attualmente lavorando? Hagai Levi: Sono stato due settimane a Los Angeles a discutere con lo showrunner. Abbiamo fatto un lungo brainstorming per elaborare i nuovi personaggi. Posso dire solo che per me questa potrebbe essere la migliore stagione di In Treatment, perché i personaggi sono stati creati di sana pianta e non sono una traduzione dalla serie originale.

Visto che le scene della serie sembrano così naturali, vorrei sapere se lascia agli attori libertà di improvvisazione durante le riprese. Hagai Levi: Nella mia serie non c'è spazio per l'improvvisazione. Da questo punto di vista io sono una specie di nazista sul set! Vi assicuro che ogni singola parola pronunciata dagli attori era già prevista nella sceneggiatura.

Oltre ai dialoghi, trovo molto interessante all'interno della serie l'utilizzo del linguaggio non verbale come veicolo per trasmettere le reali sensazioni dei personaggi. Hagai Levi: Penso che il montaggio svolga qui un lavoro fondamentale più che in ogni altra serie. È proprio il montaggio, infatti, che dà un taglio cinematografico alle scene e che ha permesso di ricreare il linguaggio non verbale dei personaggi, come l'incontro di sguardi e il gioco dei movimenti che si scambiano durante le sedute. Al tempo stesso penso che anche le scelte d'ambientazione e di regia influenzino molto il risultato finale. Per la serie originale abbiamo scelto un luogo chiuso - lo studio del terapista - che però fosse attiguo alla sua abitazione, in modo da dare l'idea di una possibile contaminazione tra vita personale e professionale. Al tempo stesso si tratta di un luogo che non è mai completamente ermetico, ma si apre in ogni puntata verso l'esterno. Per quanto riguarda le scelte di regia, nella maggior parte dei casi la macchina da presa è invisibile, quasi come in una sit-com. Ma al tempo stesso in ciascun episodio ci sono dei momenti in cui la regia si manifesta attraverso un movimento di macchina evidente, oppure un campo d'angolo particolare, in modo da trasmettere un'atmosfera ben specifica.

Attualmente sta lavorando ad altri progetti? Hagai Levi: Non è facile per me rispondere a questa domanda. È ormai da diversi mesi che lavoro a In Treatment è seguo i vari adattamenti internazionali della serie. Parallelamente sto tentando anche di sviluppare uno spin-off. L'idea questa volta è quella di non focalizzarsi più sul terapista, ma sul paziente. Nel corso delle puntate si seguirà la storia di un paziente che va dallo psicanalista da bambino, poi da adolescente e in seguito da adulto, rivolgendosi sempre a psichiatri diversi. Ma sto ancora riscontrando delle difficoltà nello sviluppare adeguatamente il concept. Sto anche lavorando a un documentario in Israele, ma di questo progetto preferisco per il momento non parlare.