Recensione The Cutoff Man (2012)

Hubel lascia che siano i personaggi a 'fare' il film, limitando i movimenti della macchina da presa e privilegiando la macchina fissa; una scelta stilistica che riduce il dinamismo in favore di una riflessione non sempre coinvolgente.

In cattive acque

Gaby non è più giovane e non ha un lavoro. Quando dall'ufficio di collocamento gli propongono di diventare l'addetto dell'acquedotto alla sospensione del servizio per i morosi, l'uomo accetta senza titubanze. Ogni giorno, a seconda delle segnalazioni del municipio, svita il rubinetto del tubo dell'acqua e lo porta con sé. In poco tempo diventa la figura più temuta, sbeffeggiata e odiata dalla comunità di Nahariya. E nel momento in cui si trova a dover tagliare l'acqua allo sponsor della squadra di calcio in cui gioca il figlio, le ripercussioni di quel lavoro così particolare travolgono anche i suoi familiari. La disperazione prende il sopravvento. E' un piccolo film The Cutoff Man dell'israeliano Idan Hubel, presentato nella sezione Orizzonti della 69.ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia; un'opera che prende il via da una situazione all'apparenza semplice, la storia di un uomo che fa il suo lavoro, le cui conseguenze però si allargano a macchia d'olio delineando via via una società devastata dalla crisi economica in cui i poveri si fanno la guerra; e se non sono schiacciati dal senso di colpa, come succede al protagonista, interpretato da Moshe Igvy, uno dei più quotati attori israeliani, non esitano a rivalersi sull'altro in maniera più o meno subdola. Al di là della semplice sanzione per il mancato pagamento, infatti, il taglio dell'acqua, bene principale alla sopravvivenza dell'uomo, scatena vendette feroci e mette questo povero diavolo di fronte alle proprie incapacità e debolezze.

Ispiratosi al proprio padre, addetto municipale al taglio dell'acqua, Hubel lascia che siano i personaggi a 'fare' il film, limitando i movimenti della macchina da presa e privilegiando la macchina fissa. Una scelta stilistica che riduce il dinamismo in favore di una riflessione non sempre coinvolgente. A funzionare però è il movimento stesso del racconto, quegli impercettibili cambiamenti che si verificano con lo scorrere della storia. Se in un primo momento assolvere al proprio compito non rappresenta nulla di importante per Gaby, che riesce a salvaguardarsi grazie ad una distanza di sicurezza con le proprie 'vittime' anonime, diventa poi sempre più complicato sostenere l'odio delle persone che lo implorano di non privarle dell'acqua. Quando assumono un'identità precisa, un volto e inizia parlare con loro, quel sentimento di disprezzo finisce per dilaniarlo e isolarlo, dall'intera comunità e dalla propria famiglia, alle prese oltretutto con i turbamenti del primogenito, disertore dell'esercito. Non sarebbe guastato un pizzico di umorismo in più per smorzare una vicenda certamente drammatica ma che avrebbe potuto riservare anche dei momenti più leggeri. E' però un debutto registico interessante quello di Hubel, che ha avuto il merito di valorizzare una micro storia, trasformandola in un discorso più ampio sulla debolezza umana.

Movieplayer.it

3.0/5