Disturbante e pieno di fascino fin dalla prima inquadratura l'ultimo film di Edoardo De Angelis, che ambienta la sua storia in un limbo sferzato dal vento e in cui l'inverno sembra aver messo radici. Tra cumuli di immondizia e baracche sul porto, Castel Volturno è lo spazio, realistico al punto da diventare fantastico, in cui si muovono Maria e le donne straniere che lei traghetta lungo il fiume per uno scopo inizialmente poco chiaro. Il vizio della speranza comincia come un mistero, con quella bambina vestita a festa e salvata dal mare con una rete da pesca, e prosegue con lo stesso incedere misterioso di una parabola, religiosa ed estremamente terrigna insieme, che vede nella nascita il rigenerarsi di tutto, e la redenzione finale.
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Maria, traghettatrice di anime
Passo svelto e mascolino, espressione severa, Maria (Pina Turco) è una giovane donna che sembra invecchiata prematuramente nel suo disincanto e che non aspira a una quotidianità diversa da quella che conduce; accetta di lavorare per conto di un'anziana ingioiellata che le impartisce ordini con l'atteggiamento di una zia amorevole ma severa che si preoccupa per la nipote. Maria, a sua volta, sembra adottare la stessa fermezza comprensiva nei confronti delle donne incinte che le obbediscono, con un misto di fiducia e timore. In realtà, in questo microcosmo campano freddo e dall'atmosfera bluastra, non c'è spazio per l'amore né per la speranza. Maria, come un moderno Caronte addolcito nell'aspetto e nell'animo, deve traghettare queste donne lungo il fiume fino a una squallida abitazione in cui un'altra donna, calva e dall'espressione impietosa, le farà partorire, affinché il loro figlio venga consegnato come un pacco pagato in anticipo a una coppia di aspiranti genitori. Questo tremendo baratto viene ammantato d'amore dalle parole ipocrite della vecchia pappona, che per sopravvivere al proprio squallore si fa iniettare eroina da Maria: un'abitudine vissuta come la banale assunzione di una medicina per i reumatismi.
In questo mondo, che per certi versi sembra quasi post-apocalittico, ogni bruttura è data per scontata: dalla droga alla depressione, dalla spazzatura ammassata alla vendita di neonati.
E il corpo della donna, che nel precedente film di Edoardo De Angelis, Indivisibili, diventava fenomeno da baraccone e veniva sfruttato per il voyeurismo altrui, ne Il vizio della speranza è ancora oggetto di lucro, reso frutto da spremere per la felicità di altri.
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Il sorgere della speranza
Maria non mette in discussione lo svolgersi delle sue giornate, finché non interviene una novità che instilla la speranza in questo scenario di desolazione e asservimento reciproco. Scopre di essere incinta, lei che pensava di non poter avere bambini e li vedeva più che altro come oggetto di scambio. Una giovane nigeriana, Fatima, si era nascosta da lei per tenere il figlio con sé; forse anche Maria può scappare da tutto. Ma, per farlo, sembra quasi aspirare a crearsi una nuova famiglia raffazzonata. È così che dapprima chiede ospitalità a una prostituta nera, e poi stringe amicizia con sua figlia, Virgin: le regala il suo maglione e le mostra come, con il cappuccio alzato, non la disturberà più nessuno.
Ed è con lo stesso slancio a formarsi un nuovo nucleo familiare che, insieme a Virgin, Maria cerca solidarietà in Carlo Pengue (Massimiliano Rossi), un giostraio emarginato da tutti in seguito a un evento di molti anni prima, che aveva coinvolto la stessa Maria segnando il suo punto di non ritorno, e che li aveva uniti secondo un disegno che entrambi ignoravano. Carlo è l'unico personaggio maschile in questo mondo evanescente di esclusi, che hanno scelto la solitudine o la catatonia per rimanere a galla, ed è l'unico che secondo Maria mostra un po' di umanità. Maria, Carlo e la piccola Virgin sembrano rappresentare un nucleo quasi primitivo di famiglia, da cui l'umanità potrà ripartire, purificata da tutte le sue colpe, liberata da tutta la sua tristezza.
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I ricordi della lavatrice
Foto in bianco e nero di vent'anni prima, che mostrano bambini terrorizzati sulla giostra, adesso in disuso, in cui Carlo lavorava: questi sono "i ricordi della lavatrice", attimi di vita che Carlo non si è sentito di gettar via, e che anzi ha custodito come un tesoro, perché in un presente di desolazione i ricordi sembrano l'unico patrimonio che si ha a disposizione. Anche Carlo, con l'occasione di aiutare Maria nella fuga, sembra aver ritrovato la speranza in un presente diverso. "Ti è venuta questa stronzata della speranza", dice a Maria la vecchia mezzana sprezzante, interpretata da un'impeccabile Marina Confalone. "State tutti fissati con la libertà; è così bella la schiavitù, con i premi e con le regole".
E in effetti pure questo personaggio odioso, che schiavizza Maria e le altre donne senza scomporsi mai, è schiavo a sua volta delle proprie dipendenze, della propria routine criminale che, vissuta con tanta imperturbabilità, non sembra neanche così fuori dall'ordinario. E sicuramente anche la madre di Maria (Cristina Donadio), affetta da una sorta di abulia esistenziale, è schiava della stessa condizione vischiosa che imbriglia tutti, l'assenza di speranza, che non fa riconoscere più il bene dal male, e che rende carnefici perfino le vittime. È la gravidanza di Maria, significativamente, a rappresentare un faro in questa storia torbida e dichiaratamente religiosa, con personaggi che si chiamano Fatima, Maria, Virgin, e che sembrano quasi degli archetipi. Anche l'ambientazione mescola con sapienza cronaca attuale e atmosfere ancestrali, con quei cieli metallici che appaiono reali e irreali, e la meravigliosa colonna sonora di Enzo Avitabile che non si ripete mai, ma segue i personaggi nel loro dolore come un cantore di tempi ormai persi nella memoria.
Movieplayer.it
4.0/5