Il tempo rimasto, la recensione: il documentario che indaga sulla memoria personale

La recensione di Il tempo rimasto, il documentario di Daniele Gaglianone che si concentra sulle testimonianze personali di diverse persone che ricordano la loro giovinezza passata.

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Il tempo rimasto: un momento del film

Come vedremo nella nostra recensione di Il tempo rimasto, il film documentario diretto da Daniele Gaglianone si presenta come una serie di testimonianze orali da parte di diverse persone comuni, ormai appartenenti alla tarda età, sulla loro giovinezza. La memoria acquista, quindi, un significato principale durante i 90 minuti del film, il fattore determinante da cui scaturisce tutto il senso dell'opera. Perché, più che cercare di costruire un memoriale di eventi, Il tempo rimasto indaga sui ricordi personali e intimi, dando spazio alle emozioni (forse sin troppo) e lasciando che sia lo spettatore a costituire un legame empatico ed emotivo con i protagonisti comparsi sullo schermo.

Vite passate

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Il tempo rimasto: una scena del film

Il tempo rimasto non presenta una vera e propria trama, quanto un canovaccio seguito dall'inizio alla fine, seguendo una forma di documentario quanto più pura possibile. L'idea è quella di intervistare diverse persone comuni sulla loro infanzia e sulla loro vita passata. A volte seduti al tavolo di casa sfogliando vecchie fotografie, a volte ritornando sui luoghi della propria infanzia ormai diroccati e decadenti, a volte assumendo toni più leggeri di pura aneddotica, altre percependo un forte rimpianto. Viaggiando tra diverse regioni d'Italia, da nord a sud, Gaglianone si concentra sulla dimensione umana, ponendo il fuoco della sua macchina da presa sui volti, le rughe, gli sguardi. Protagonista assoluto è il passaggio del tempo, lo scorrere della vita, e il tentativo di catturare i momenti di un'infanzia ormai perduta ma non dimenticata.

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Il tempo rimasto: una foto del film

Ci sono degli aspetti nei racconti degli intervistati che trovano terreno comune: il rapporto con i genitori, la povertà delle famiglie, il desiderio di andare a scuola e studiare nonostante le difficoltà, il lavoro che definiva le vite e la personalità di ognuno, gli amori che, una volta sbocciati, sono durati una vita intera. Inevitabile che, nel parlare di vita, l'accento si ponga anche sulla morte, considerata come un evento naturale, ma tragico. Persino lo stesso titolo del film sembra sottolineare come le testimonianze orali (alcune così naturali da aver bisogno dei sottotitoli per comprendere il dialetto usato) siano influenzate da una percezione di attesa. L'obiettivo è quello di rendere lo schermo uno specchio nel quale riflettere a nostra volta sul concetto di memoria.

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Lo spettro delle emozioni

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Il tempo rimasto: un'immagine del film

Per tutti i 90 minuti, Il tempo rimasto predilige un approccio naturalistico, semplice e schietto, senza cercare -il più delle volte- l'inquadratura precisa o una certa cura estetica a favore della creazione di un legame empatico. Il risultato, però, non è sempre convincente. Il racconto degli intervistati è alternato ad alcune riprese di paesaggi e legate alla dimensione della natura che non presentano la stessa qualità visiva del resto del film, risultando fuori posto e donando una spiacevole dimensione amatoriale all'opera, nonostante siano necessarie per spezzare il flusso di ricordi e parole. Lo stesso intervento del regista in fase di riprese sembra essere a tratti contraddittorio. La forza del documentario sta nel lasciare carta bianca ai ricordi che vengono raccontati, ma accade che in certe situazioni si sente la voce del regista dietro la macchina da presa, sino a intervenire direttamente in un certo momento, smascherando il lato fiction (o per meglio dire di ricostruzione visiva) del racconto. Sono accenti che rompono la coesione narrativa del film e risultano poco centrati, così come potrebbe risultare insistita la ricerca di un'emotività da sprigionare. Attraverso i ricordi e i racconti non è sorprendente che gli intervistati non riescano a trattenere le lacrime, sommersi dalla nostalgia e dal proprio vissuto. Quello che funziona meno è però la sensazione di una ricerca continua verso questa commozione, ostentando gli occhi lucidi, i pianti, le voci sommesse, come se lo spettatore avesse necessità di vedere un'emozione anziché invocarla. Va molto meglio, invece, dal punto di vista visivo, l'attenzione rivolta ai corpi e ai volti, alcuni davvero espressivi di una vita trascorsa.

Conclusioni

A conclusione della nostra recensione di Il tempo rimasto possiamo affermare che, nonostante alcune scelte stilistiche contraddittorie, come l’intervento a fasi alterne del regista nelle interviste, e uno stile di ripresa di qualità altalenante, il documentario riesce a costruire un’emotività legata alla memoria e al tempo passato che funziona. Proprio per questo la ricerca ostentata degli occhi lucidi e della commozione potrebbe risultare eccessiva e fuori luogo per un film che, invece, proprio mostrando corpi, rughe, volti e dando largo spazio alle voci di storie intime e personali trova il suo punto di forza.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
4.4/5

Perché ci piace

  • La scelta di concentrarsi sul trascorso personale degli intervistati che costruisce un’emotività sincera.
  • Il modo in cui vengono inquadrati i volti e i corpi dei protagonisti.

Cosa non va

  • Qualche scelta stilistica contraddittoria rende il documentario meno coeso al suo interno.
  • La ricerca di emozioni ostentate appare non necessaria.