Il tempo che ci vuole è lo spazio narrativo organizzato da Francesca Comencini nel quale rintraccia, rinchiude e custodisce il valore umano di un ricordo paterno, e per questo nevralgico nella sua forma intima e reale. Una storia privata, di riflessione e condivisione, ma anche universale nella sue parole e nei suoi sguardi. E lo descrive, ovviamente alla perfezione, la stessa regista, quando definisce il film una sorta di "susseguirsi di faccia a faccia". Nulla di più vero, perché Il tempo che ci vuole, presentato in fuori concorso a Venezia 81, nella sua semplicità, parte proprio dalle immagini, amplificate dai ricordi scambiati in un viaggio lungo quasi trent'anni.
Uno spazio scevro del mondo circostante (tant'è che in scena ci sono sempre e solo padre e figlia), ma carico di libri, di sguardi, di affetto e, ovviamente, carico di cinema. Del resto, quello della regista, è un atto d'amore verso suo padre (e come per ogni attore d'amore, c'è un trasporto a volte poco lucido), verso la sua figura archetipa ma, soprattutto, è un atto d'amore verso il cinema. Sogno, speranza, rifugio, lavoro. Strumento e scopo, obbiettivo e salvezza. Il cinema, oltre la paura, e vicino alla bellezza.
Il tempo che ci vuole: la storia di un papà e di sua figlia
Ed è una scelta sensata quella che compie Francesca Comencini: asciugare il suo mondo, e riassumerlo nel rapporto con il papà Luigi. Non ci sono le sorelle, non c'è la mamma. Al centro, se stessa: una bambina taciturna e timida, che osserva incuriosita un papà gentile farsi la barba in giardino, prima di girare quel Pinocchio che segnerà l'immaginario di innumerevoli generazioni. Omaggio nell'omaggio, ricordo nel ricordo (e che bella la sequenza sul set di Pinocchio, tra amarcord e sorrisi carichi di commozione).
Un papà buono ("probabilmente troppo buono per il cinema", dirà Luigi ad un certo punto, sferzando una verità che tendiamo a condividere), educato, elegantissimo. Ancora più elegante nell'interpretazione misurata eppure sostanziale di quel fuoriclasse che è Fabrizio Gifuni. Dall'altra parte, la regista sceglie prima la piccola Anna Mangiocavallo (esordio) per il primo arco narrativo, e poi la sempre più brava Romana Maggiora Vergano per gli anni di una maturità complicata e sgraziata, appesantita dall'eroina e dall'indecisione.
Romana Maggiora Vergano, c'è ancora domani per essere felici
Prima la vita, poi il cinema
A proposito, ciò che smuove Il tempo che ci vuole sembra essere proprio il valore umano della contraddizione, della caduta, del fallimento ("tentare e fallire", non c'è cosa più importante, ripete Luigi). Un elogio alla fragilità. Una riflessione magari un po' troppo ridondante nella sua costante elevazione dei dialoghi e degli incroci, ma comunque spinta da una dolcezza dalle forme decise, meno borghesi di quanto potrebbero apparire, e anzi comprensibili e nobili nel dialogo instaurato con il pubblico (e sarebbe bello che il film venga visto anche dai più giovani). Un pubblico che può emozionarsi, può ritrovarsi, può cogliere le parole illuminanti e sempre precise di quei dialoghi tagliati al millimetro, tra retorica e l'istinto più puro.
Sembra banale, ma in fondo quello di Francesca Comencini (e in generale molti dei suoi lavori precedenti) è un cinema decisamente continuo a quello di papà Luigi: un cinema che parla allo spettatore, e non solo al proprio autore. In qualche modo, Il tempo che ci vuole, è anche un film di fughe (e non c'è nulla di più cinematografico di una fuga). Una fuga dalla realtà che punta all'immaginazione salvifica rappresentata dal cinema (come le lacrime di Luigi, quando rivede Paisà di Rossellini), una fuga dalla paura (rappresentata dal pescecane di Pinocchio, che "tormenta" Francesca fin da piccola), una fuga dalla vecchiaia, che torna ad essere focosa gioventù per il tempo ristretto di un film caldo e sincero (come sottolinea la corroborante fotografia di Luca Bigazzi), tuttavia a volte troppo artificioso ma senza dubbio emotivo e sentito. Perché, dopo tutto (e dopo tutti gli abbracci che suddividono il racconto), ciò che esce fuori è uno sbilenco e impetuoso ringraziamento, sottolineato da un memorandum da non dimenticare mai: prima viene la vita, e solo dopo viene il cinema.
Conclusioni
Intimo e dolcissimo, l'omaggio di Francesca Comencini ha la capacità di parlare al pubblico grazie all'universalità di una storia privata in cui potersi ritrovare, tra gesti, parole, silenzi, abbracci. Potrebbe soffrire di una certa ridondanza retorica, ma l'emotività e il trasporto sono tali da rendere Il tempo che ci vuole un'opera congrua ed emozionante, nella suo sincero ringraziamento, personale e amorevole. Ottimi, ma non è certo una sorpresa, i protagonisti: Romana Maggiora Vergano e Fabrizio Gifuni.
Perché ci piace
- La bravura di Romana Maggiora Vergano e Fabrizio Gifuni.
- Una dolcezza preponderante.
- L'omaggio al cinema, e al Pinocchio di Comencini.
- L'idea di raccontare una storia tramite sguardi e abbracci.
Cosa non va
- Forse, i dialoghi soffrono di una certa retorica.
- Non tutto è riuscito, e alcuni passaggi risultano incredibilmente calcati.