Recensione La ricerca della felicità (2006)

Il primo film yankee di Muccino sposa passivamente il mito del sogno americano: volontarismo e desiderio di eccellere come unici motori di una società che non riesce a comunicare ed a istaurare rapporti e legami.

Il sogno americano di Muccino

"All'inizio del 1981, quando divenni padre per la prima volta, ero così felice che il senso di urgenza aumentò".
Così recita Chris Gardner nel prologo del suo libro La ricerca della felicità. Tutto il film omonimo ruota attorno al desiderio dell'uomo di essere compiuto, di trovare, finalmente e una volta per tutte, uno stato di quiete e soddisfazione personale.
La risposta di Gardner, il dato oggettivo che gli cambia la vita, non sembra essere, almeno a guardare la prima opera yankee di Gabriele Muccino, un incontro, fosse anche la presenza costante e, per alcuni versi, decisiva del figlio di cinque anni, un avvenimento davvero insolito e latore di una scintilla di novità nella vita.
La sua odissea ha come motore il più classico e arido "american dream", quella sorta di miscuglio tra il volontarismo meccanicista che posa tutto il proprio essere su un domani senza aderenza alcuna con la realtà presente, e una specie di tardo calvinismo che vede una certa benevolenza del fato, degli "dei" (e dunque della società), nei confronti di chi nella vita ha successo.
Per cui il punto di svolta, in un ambiente dal tessuto sociale praticamente invisibile (nessun parente, nessun amico), non è un incontro, una novità vera nella routine di tutti i giorni, ma una banale auto di lusso, una Ferrari, paradigma di una condizione sociale a cui fortissimamente tendere, segno (ir)raggiungibile di un'agognata omologazione, desiderio di farcela sempre e comunque per non essere etichettato come un loser, un perdente, insulto senza pari nel nord-america.
La domanda di felicità che emerge ineluttabile, dunque viene ridotta al possedere ciò che non si ha e che si vorrebbe avere, sterile e vacua meta, feconda, in quanto rilanciante ad un ulteriore ricerca di potere e di possesso, di una dirompente carica conflittuale.

Parlando con il Gardner di oggi, alla conferenza stampa romana di presentazione del film, si scopre infatti che quella sua ricerca è lungi dall'essersi risolta in un pur sorprendente arricchimento materiale, dopo la vittoria, unico su venti, di uno stage in un'importantissima azienda di intermediazione finanziaria, dopo aver condotto per diversi anni una vita di estrema indigenza.
"Le uniche persone in qualche modo felici che oggi conosca sono quelle che assumono un qualche tipo di droga", dice in modo laconico.

Muccino si tuffa così in un film non suo, ma che non fatica a rendere tale, capovolgendo il sottotesto che aveva caratterizzato la sua filmografia italiana; si passa alla cieca e sterile ricerca della felicità legata al denaro e al successo, mentre si era partiti da una disgregazione minimalista e fatalista dell'uomo e della famiglia vista come primario sfaldamento della società. In entrambe le visioni, pur così radicalmente difformi, è presente sottotraccia il tema che viene esplicitato dal titolo dell'ultimo lavoro: questa "ricerca della felicità" che viene, in ogni caso, ridotta a qualcosa di concretamente tangibile, per cui destinato ultimamente a finire; che sia un'amante, uno spinello, un futuro lontano da casa o, come per Gardner, il successo e la ricchezza.
Per citare il regista, "è questo che la società americana, individualista e materialista, si aspettava".
Ci sarebbe piaciuto vedere, dopotutto, un film sui diciannove stagisti scartati: questo, in fin dei conti, nel suo essere a tratti duro, a tratti consolatorio, esteticamente dipinto di un realismo patinato, è fin troppo semplice, un po' ipocritamente, farselo piacere.