Fa un certo effetto scrivere ora la recensione de Il Re di Staten Island, sesto film di Judd Apatow che inizia ora il suo percorso internazionale, in sala o in digitale a seconda dei paesi (in Italia entrambe le opzioni), dopo essere uscito direttamente in VOD negli Stati Uniti poco più di un mese fa. Così facendo il film si è ritrovato, volente o nolente, invischiato nella polemica tra Universal, che negli ultimi mesi ha optato per il Premium Video on Demand per alcuni titoli inizialmente previsti per le sale (su tutti Trolls World Tour) e poi dichiarato di voler provare la formula ibrida per uscite future, e AMC, principale catena di multiplex negli USA (e proprietaria di gruppi come UCI per quanto riguarda l'Europa), che aveva deciso di non proiettare più i film della major (l'altro gruppo importante, Regal, ha più diplomaticamente vietato solo i titoli che non rispetteranno la finestra di 90 giorni tra lo sfruttamento cinematografico e quello domestico). Situazione risolta due giorni fa con un accordo inaudito: l'esclusività in sala, per i film Universal proiettati nei cinema AMC, sarà di soli 17 giorni.
Considerazioni che non possono non far pensare a quanto accaduto appunto con Il Re di Staten Island, per il quale la Universal ha scelto la strada del VOD in patria anziché rimandarlo a una data più propizia, nonostante il successo generale delle produzioni targate Judd Apatow (dei cinque film precedenti solo Funny People è stato un vero e proprio flop commerciale) e il discreto seguito di cui gode il protagonista Pete Davidson, membro del cast di Saturday Night Live dal 2014 e volto di una comicità autodenigratoria a base di humour nerissimo: Davidson, che ha perso il padre all'età di sette anni (era un vigile del fuoco in servizio la mattina dell'11 settembre 2001 a Manhattan), ha inizialmente fatto della sua giovane età la sua cifra stilistica in termini di risate (quando è stato assunto da SNL aveva vent'anni), per poi concentrarsi, senza troppi peli sulla lingua, sulla propria salute fisica e mentale, esorcizzando i suoi traumi sul palco. Emblematico, in tal senso, non solo il titolo del suo recente spettacolo disponibile su Netflix, Alive in New York (allusione a presunti tentativi di suicidio), ma anche la folgorante battuta fatta durante un serata in cui si prendeva in giro Justin Bieber (con il consenso di quest'ultimo): "Justin, dopo aver conosciuto tuo padre sono felice che il mio sia morto."
Questi sono i 25
Cambia l'età del protagonista, ma rimane la preoccupazione, tipica del cinema di Apatow, legata a un personaggio abbastanza spensierato e irresponsabile che non ne vuole sapere di crescere. In questo caso è Scott Carlin (Davidson), orfano di padre che vive a Staten Island con la madre (Marisa Tomei). Passa le sue giornate tra videogame, canne e incontri erotici con l'amica d'infanzia Kelsey (Bel Powley), la quale vorrebbe una relazione più seria mentre lui ritiene di non essere all'altezza di un impegno simile. Lo stravolgimento maggiore arriva quando la madre inizia a frequentare Ray Bishop (Bill Burr), con il quale Scott aveva precedentemente avuto un battibecco. Il ragazzo fatica ad accettare questa svolta, principalmente perché Ray è un vigile del fuoco come il defunto padre di Scott, e c'è quindi il rischio che un giorno non torni più a casa. Il rapporto tra i due è teso, ma col passare del tempo il giovane forse si renderà conto di dover superare certe cose e assumersi determinate responsabilità da adulto, pur non volendo abbandonare il sogno di diventare tatuatore professionista.
Saturday Night Live: 40 anni di risate
Alti e bassi dell'autobiografia
C'è sempre stata una componente parzialmente autobiografica nel cinema di Apatow, in particolare in un titolo come Questi sono i 40 (dove la protagonista femminile non a caso ha il volto di Leslie Mann, moglie del regista nella vita), ma si trattava di considerazioni per lo più universali all'interno di un canovaccio che mescolava comicità demenziale e sincerità. Con Un disastro di ragazza la medesima formula era stata applicata alla sceneggiatrice e interprete principale Amy Schumer, con il merito notevole di avere un copione di ferro senza particolare bisogno di improvvisazioni (motivo principale per cui quasi tutti i film del cineasta hanno una durata superiore alle due ore, caratteristica che lui stesso mette alla berlina in sede di interviste). Qui invece è praticamente impossibile scindere Scott da Pete Davidson, perché al netto di qualche licenza poetica la sovrapposizione è totale: residente a Staten Island con la madre vedova, figlio di un compianto vigile del fuoco, affetto dal morbo di Crohn e accanito consumatore di marijuana. Non per niente si è parlato di una "semibiografia" dell'attore.
Un disastro di ragazza: la commedia è femmina e non teme il sesso
L'apprezzamento dei 137 minuti del film può quindi dipendere, in misura non indifferente, dal grado di tolleranza che si ha nei confronti dello stesso Davidson e della sua comicità che a tratti è a metà tra il masochismo e la terapia di gruppo. E se sul piano puramente comico il lungometraggio a volte inciampa, con digressioni che fanno sorridere come entità a sé ma non aggiungono nulla di concreto al racconto circostante (vedi il ruolo di Pamela Adlon), Apatow si riscatta, e non poco, su quello emotivo, offrendo una versione più matura di quella sincerità che ha sempre fatto parte dei suoi progetti. Simbolico, in tal senso, il sostegno recitativo offerto da Steve Buscemi, ex-vigile del fuoco che diede manforte ai colleghi di un tempo nel giorno che costò la vita al padre di Davidson. A suo modo, il film è dunque il ritratto aggiornato di una città che si sta ancora riprendendo da una tragedia sconvolgente, e c'è un che di poetico nel fatto che il regista sia riuscito a inserire quel messaggio, così bello e toccante, nella storia di un giovane la cui vita ruota attorno agli spinelli e alle battutacce.
Conclusioni
Chiudendo questa recensione de Il Re di Staten Island ci congediamo dal sesto lungometraggio di Judd Apatow, un film che raggiunge nuove vette di maturità per quanto concerne la poetica del cineasta ma si perde un po' per strada ritrovando il vecchio vizio legato alle digressioni improvvisate che allungano a dismisura il minutaggio. Pane per i denti di chi apprezza la comicità di Pete Davidson, mentre i neofiti potrebbero fare un po' di fatica.
Perché ci piace
- Pete Davidson si mette a nudo con coraggio e irriverenza.
- Bill Burr riconferma le sue grandi doti comiche al fianco di Marisa Tomei.
- Ammirevole la vena più malinconica e matura di certe sequenze.
Cosa non va
- 137 minuti sono decisamente troppi.
- Alcune sottotrame non aggiungono nulla di fondamentale.