Recensione Barton Fink - È successo a Hollywood (1991)

Si chiude il sipario. Il pubblico si alza in piedi, applaude gli attori ma invoca lo scrittore che ha concepito quella meravigliosa pièce teatrale. È nato un autore colto e raffinato: si chiama Barton Fink.

Il purgatorio di uno scrittore

Si chiude il sipario. Il pubblico si alza in piedi, applaude gli attori ma invoca lui, lo scrittore, la mente che ha concepito quella meravigliosa pièce teatrale. È nato un autore colto e raffinato: si chiama Barton Fink. L'eco del travolgente trionfo newyorchese arriva alle orecchie del produttore Jack Lipnick che arruola Fink nel battaglione di scrittori della sua Capitol Pictures. È il 1941 e Barton vola verso Los Angeles, pronto a lanciarsi tra le braccia del successo internazionale perché solo a Hollywood i sogni (di gloria) diventano realtà. Fink s'installa all'Hotel Earle e, nella patria dell'industria cinematografica, culla dell'opulenza, antitesi del cinema d'autore, smarrisce se stesso.

Il primo lavoro su commissione è una spiacevole sorpresa. Lipnick lo incarica di scrivere una sceneggiatura per un film di serie B sul wrestler Wallace Beery, con tante botte, tanti buoni sentimenti e soprattutto che piaccia allo spettatore medio. Fink trasale, malgrado sia stato lusingato da complimenti e da un contratto di 2000 dollari a settimana. Come può abbassarsi a tanto? Ci prova e trasforma una semplice storia in un capolavoro intellettuale sul wrestling che fa uscire i fumi al boss della Capitol Pictures. Arriva l'inevitabile blocco dello scrittore. Foglio bianco, Fink, macchina da scrivere, Fink, foglio bianco. L'angoscia lo attanaglia. Da questo momento una cosa sola si rivela essere più complicata dell'interno della sua testa: l'esterno.

Carico di simboli, il film prosegue con ambiguità concentrando i contenuti nel pacco risolutivo del finale. Inaspettatamente è il vicino di stanza d'albergo Charlie Meadows, un assicuratore, a mostrare a Fink la diritta via. Il personaggio che ha la stazza di John Goodman, è un rappresentante del ceto medio, in apparenza privo di sensibilità artistica (e quindi inferiore) e demarca l'inizio della rivoluzione per l'idealista Barton Fink. Difficile sapere fino a che punto i personaggi intorno allo scrittore siano frutto del suo inconscio. Il caldo infernale californiano, con tanto di tappezzeria che si scolla dalle pareti, lascia presagire il suo lento tracollo psicologico. La prima parte del film è una miccia assuefante che brucia con estrema indolenza fino allo schiaffo sulla schiena della donna. Da qui in poi il film letteralmente s'incendia. Fink perde la testa oscillando tra salvezza e dannazione. È Hollywood, quel luogo di perdizione, ad essere l'inferno o infernale è sempre stata la sua vita? Il pacco è la risposta. Il suo stato mentale è chiuso lì dentro.

Barton Coen, Ethan e Joel Fink. Quanto è autobiografico il personaggio di John Turturro? Fink è un intellettuale convinto di creare alto intrattenimento ad uso e consumo dell'uomo comune, ma è incapace di equipararsi ad esso. È arrogante, non sa vivere nel mondo reale, preferisce restarne al di fuori, o meglio, al di sopra. Joel Coen e Ethan Coen con questo personaggio, con la più feroce delle autocritiche, condannano loro stessi. Estrosi filmakers, che prima di Barton Fink avevano realizzato Sangue facile, Arizona Junior e Crocevia della morte, i fratelli Coen, amanti del buongusto per l'arte cinematografica, autori dal palato fino, prendono le distanze dal cinema di cassetta hollywoodiano deplorando al contempo la loro stessa insolenza. Barton Fink lo scrittore è un perdente, Barton Fink il film è un capolavoro. Del cinema d'autore, naturalmente.