Il film di Jacques Audiard Il profeta, che 15 anni fa ha trasformato Tahar Rahim in uno degli attori francesi più apprezzati al mondo, diventa ora una serie tv. Girata tra Francia e Italia, più precisamente in Puglia, la serie di Il profeta è stata presentata in anteprima a Venezia 82. È composta da 8 episodi, tutti diretti da Enrico Maria Artale, che per anni ha amato e studiato il film di Audiard.

In attesa di scoprire dove e quando arriverà in Italia, abbiamo incontrato il regista al Lido, dove ci confermato la sua passione per la pellicola del 2009: "Il profeta ha rivoluzionato un modo di filmare e aderire ai personaggi. Il suo stile è uno dei più imitati da un'intera generazione di registi. L'aspetto viscerale è talmente dirompente che ha segnato una cesura in un certo tipo di linguaggio già tendente vero il realismo, quasi documentaristico. E per me è stato folgorante nel modo in cui, all'interno del genere, riproponeva un afflato filosofico, mistico, molto alto".

Ovviamente, dopo tanti anni, qualcosa è stato cambiato: Malik, immigrato africano che deve sopravvivere in una prigione francese, è interpretato da un ragazzo nero, Mamadou Sidibé, per la prima volta sullo schermo. E non solo: "Sono grato per l'opportunità, ma ho capito fin da subito di dover andare da un'altra parte. Non volevo fare un lavoro imitativo e quindi inevitabilmente più scadente. Audiard ha fatto una rivoluzione 15 anni fa, ma adesso nel linguaggio cinematografico stiamo cercando qualcos'altro. Il mio modo è stato mettere in tensione il mio modo di stare vicino agli attori con una visione più ieratica, più simbolica. Più rigorosa in un certo senso, che permettesse un aspetto meditativo. Cosa che trovo provocatoria, perché le serie raramente si concedono questi ritmi".
Il profeta: intervista a Enrico Maria Artale
La serialità italiana sta diventando sempre più internazionale. Pensiamo a progetti come L'amica geniale, M. - Il figlio del secolo, o a Gomorra - La serie, diventata un fenomeno in tutto il mondo. Anche Il profeta ha questo respiro più cosmopolita. Dov'è che è cambiato tutto?
Il regista: "Credo che agiscano diversi fattori. Sicuramente l'avvento dei vari player, e quindi la moltiplicazione delle opportunità e l'arrivo di nuovi produttori, ha cambiato tante cose. Però trovo anche che, in questi ultimi anni, dopo momenti di grande coraggio produttivo, si stiano cercando un po' troppo delle strade già percorse. È come se stessimo vivendo una leggera involuzione, che però è compensata in parte da una ricerca di visioni con una certa personalità. Da un lato si dà un po' meno fiducia alle idee più originali, ma dall'altro vedo sempre più coinvolti autori, registi e sceneggiatori, che vengono chiamati in causa e a cui viene data un po' più di libertà. Questo crea dei prodotti che si situano a metà tra i due linguaggi, tra serie e cinema, e questo crea una maggiore varietà".
Cinema vs serie: un punto d'incontro è possibile

Cinema e serie tv quindi non sono più in conflitto? Per Artale è tutto il contrario: "Credo che si debba far dialogare cinema e serialità il più possibile: sono convinto che ne possano beneficiare entrambi. Se la serialità si appiattisce su dei meccanismi industriali perderà di interesse. E probabilmente anche pubblico. Se invece si concede una maggiore complessità, forse si manterrà in uno stato di salute. E questo può riportare anche del pubblico al cinema, perché può provocare di nuovo gli spettatori. Può ricreare interesse per una visione più complessa e impegnata. Più ricca".