Recensione Paradise Now (2005)

Il regista capisce che il problema palestinese è troppo complesso per essere rappresentato al cinema da una sola angolazione e si accontenta quindi di rappresentare la realtà.

Il paradiso può attendere?

Tra i film in concorso al 55° Festival di Berlino, uno dei più apprezzati è finora Paradise Now del palestinese Hany Abu-Assad che racconta le ultime quarantotto ore di due kamikaze della West Bank, intenzionati a farsi esplodere a Tel Aviv.
Il film comincia con il seguire una giornata tipo di Khaled e Said alle prese con il lavoro, la famiglia, l'amore, e prosegue nel mostrare l'annuncio fatto ai due giovani della missione suicida che dovranno compiere il giorno successivo e la conseguente tragica consapevolezza della propria morte imminente. Ovviamente non è possibile farne parola a nessuno e il loro saluto ultimo viene quindi registrato su video insieme alla dichiarazione d'intenti, e quando ormai tutto sembra deciso e inevitabile un imprevisto manda tutto a monte, dividendo i due amici che cominceranno a cercarsi l'uno con l'altro e a riflettere sulla propria scelta.

L'aspetto più interessante del film è nella differenza delle motivazioni che porta al suicidio consapevole: Khalid è parte integrante del fanatismo religioso alle basi del conflitto Israeliano-Palestinese, mentre Said sembra combattuto, forse anche a causa di un amore mai dichiarato nei confronti della bella Suha. Ma sarà proprio quest'ultima a dare avvio ad un rovesciamento di fronti, innescando il tarlo del dubbio in Khalid e rafforzando, involontariamente, le convenzioni di Said.
Il terrorismo non farà altro che dare una scusa agli Israeliani nel continuare con la loro occupazione e la loro violenza, e tanto basta a Khalid per rinunciare al proprio piano; ma a Said, il cui padre fu assassinato quando era ancora piccolo, questo non può bastare, perché l'Intifada è un qualcosa che ha già vissuto sulla propria pelle e che ha distrutto la sua vita e la sua famiglia per sempre.
Le due motivazioni si bilanciano e così come nella realtà dei fatti finiscono per essere come un gatto che si morde la coda, un ciclo costante e apparentemente senza fine.

Il regista capisce che il problema palestinese è troppo complesso per essere rappresentato al cinema da una sola angolazione e si accontenta quindi di rappresentare la realtà, il modo in cui viene vissuto il problema dall'interno e come le possibili soluzioni possano essere così differenti, così estreme. Il tono naturalistico è ben reso anche dall'ottima fotografia e dalle buone interpretazioni attoriali. L'aver girato il film direttamente nei luoghi più ad alto rischio attacchi (con tutti i problemi che ha ovviamente comportato) aiuta a dare una sensazione di tragedia imminente che pervade tutta la pellicola e la rende, nonostante l'argomento sia tutt'altro che leggero, estremamente scorrevole.
Concludiamo dicendo come, sempre qui a Berlino, pare sia stato trovato un accordo per una distribuzione di Paradise Now anche in Israele, non si sa ancora quanto sarà possibile a livello pratico e soprattutto come sarà accolto, ma è sicuramente una notizia positiva e un segno di grande apprezzamento per un film importante che merita visibilità.

Movieplayer.it

4.0/5