"Non ho scritto un romanzo. I fatti ch'io narro sono veri; veri nei particolari, nei nomi dei personaggi, nei luoghi dell'azione, nei tempi in cui accaddero, e fin nei dialoghi che riporto. I galluresi potrebbero farne fede." Questo è un celebre passaggio della dedica iniziale del romanzo che Enrico Costa consacrò alla vicenda di Bastiano Tansu, con fare quasi cronachistico (il vero caso risaliva a qualche decennio prima della pubblicazione), firmando una delle grandi opere letterarie della tradizione sarda. A quasi 140 anni di distanza, tale vicenda è arrivata al cinema, ed eccoci a scrivere la recensione de Il Muto di Gallura, opera prima di Matteo Fresi che ha avuto l'onore di essere l'unico lungometraggio italiano in concorso all'edizione 2021 del Torino Film Festival, un bel successo per il regista che nel capoluogo piemontese c'è nato e ha costruito la propria carriera, tra applicazione pratica e docenza (collabora con la Scuola Holden).
Silenzioso e letale
Il Muto di Gallura si svolge a metà dell'Ottocento, nel bel mezzo della faida tra due famiglie che sta seminando morte e panico nella zona di Aggius. Personaggio centrale del conflitto è Bastiano Tansu (Andrea Arcangeli), killer sordomuto che ha messo la sua mira prodigiosa al servizio di una delle due famiglie in seguito alla morte del fratello. È il boogeyman della regione, sinonimo di morte certa per chiunque incroci la sua strada, e tale aura lo accompagna sin dall'infanzia, dato che il suo essere sordomuto dalla nascita lo ha visto additato come figlio del demonio. Lo Stato e la Chiesa intervengono per siglare la pace dopo anni di sangue, e anche Bastiano sembra intenzionato a lasciarsi alle spalle un vissuto a base di violenza. Ma la sua reputazione di essere demoniaco rimane, e non sono pochi quelli che vorrebbero rimuoverlo dalla circolazione in modo permanente...
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Matteo Fresi è nato a Torino ma di origine umbra e gallurese, e c'è quindi una volontà di omaggiare quella terra portando sullo schermo il suo cittadino più noto, in un'operazione che, come il romanzo di Enrico Costa, parte dalla realtà per creare qualcosa di drammaticamente coinvolgente. Nel caso del film, l'intreccio a base di faide e vendette si presta ad atmosfere da western, con Bastiano inquadrato più volte come se fosse un antieroe leoniano (anche se, per la natura del personaggio, l'accostamento che viene spontaneo è con Il grande silenzio di Corbucci). Una scelta a suo modo coerente, in linea con l'ambizione di un'opera prima la cui componente di genere è insita nella premessa, ma che espone anche la grande fragilità di un film che fa dell'estetica la sua ragion d'essere, soffocando ogni frammento residuo di umanità e pathos in nome di un formalismo a tratti autocompiaciuto, nonché squilibrato (alcune sequenze scivolano nel ridicolo involontario, principalmente quando ci si allontana dalle sparatorie).
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La storia di Bastiano e delle tensioni che hanno macchiato di sangue il territorio di Aggius diventa così un confuso esercizio di stile che vorrebbe entrare nella comunità delle grandi opere cinematografiche sarde (basti pensare ai percorsi di Salvatore Mereu e Bonifacio Angius) ma ne rimane tagliato fuori, soffocato dalla sua stessa ambizione che non lascia trasparire il cuore sotto le (non sempre) belle immagini. C'è una sincerità nello sguardo di Fresi, che all'epoca della presentazione del film a Torino rilasciava questa dichiarazione sul sito della manifestazione: "Desidero raccontare questa storia perché credo che, in fondo, tutti noi ci siamo sentiti un po' Bastiano Tansu: abbiamo avuto difficoltà a comunicare i nostri sentimenti e i nostri bisogni; abbiamo agito in funzione di regole che non comprendiamo; abbiamo guardato in faccia il dolore di una perdita e ci siamo sentiti soli. Abbiamo pensato che l'amore ci potesse salvare da noi stessi. E siamo stati smentiti." Ecco, la difficoltà comunicativa è rimasta, al netto delle intenzioni molto interessanti e delle intuizioni che suggeriscono promesse che forse in un futuro prossimo saranno mantenute.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione de Il Muto di Gallura, sottolineando come si tratti di un'opera prima che arranca nel portare sullo schermo la curiosa vera vicenda di Bastiano Tansu.
Perché ci piace
- I paesaggi sardi contribuiscono ai toni da western scelti per il progetto.
- Le sequenze di violenza sono costruite con criterio.
Cosa non va
- Il formalismo eccessivo soffoca il cuore umano della storia.
- Lo squilibrio tonale di alcune scene è un po' straniante.