Di regia e di spunti, di scrittura e di personaggi. Ne Il Maestro c'è tutto, e forse di più. C'è il colore di un'idea, la cui esecuzione pratica torna a rileggere davvero gli stilemi della commedia all'italiana, dopo decenni di brutte copie e falsi tentativi. Ci voleva Andrea Di Stefano, uno che ha diretto gente come Benicio Del Toro e Rosamund Pike, tornando poi in Italia con un bagaglio d'esperienza da potersi rivendere. Giustamente.
E ci voleva Ludovica Rampoldi, che ha co-scritto la pellicola, sintetizzando in due ore il senso di cosa possa voler dire "emozione". Sì, ne Il Maestro c'è tutto: lo sport che spiega la vita, la vita che spiega lo sport. Come spesso accade, cinema e sudore, un genere che ne contiene dentro altri cento. Metafora perfetta, sintesi esaustiva Destino, rimorsi, gioie, dolori.
La potenza di un personaggio da manuale (grazie a Favino)
"Il tennis è come la vita, quando scendi in campo sei da solo", dice lo splendido Raul Gatti, interpretato da un altrettanto splendido Pierfrancesco Favino. A proposito: se il talento di "Picchio" - come lo chiamano i suoi colleghi più cari - non è certo una novità, qui la sua bravura raggiunge le note interpretative già mostrate ne Il traditore. Ruoli diversi, ovvio, ma questo Gatti, che fa "miao" quando ci prova con le ragazze, piangendo poi in camera d'albergo, è la definitiva distruzione del maschio alfa, andando oltre quel "maestro" da cui il titolo. Come? Sfoderando una beffarda vulnerabilità che diventa aspirazione e ispirazione. Un eroe fallito, o meglio dire "l'eroismo del fallimento". Niente di più bello, niente di più riconoscibile.
Gatti, Stan&Smith ai piedi e tuta acetata; incastrato nel rimpianto di un'estate passata, di quei giorni di gloria e sregolatezza di cui non resta che un ingombrante ricordo. Raoul, uno che spezza le regole, che prende a schiaffi la depressione. Attaccando, sempre e comunque, vada come vada. Per buona pace di chi gioca indietro, di chi arretra aspettando di ribattere l'ennesima palla. "Gioca semplice", ripete il papà di Felice (Tiziano Menichelli, rivelazione), impiegato alla SIP, che affida a Gatti quel figlio tennista indottrinato alla difesa.
Il Maestro e l'evoluzione de Il sorpasso
Un feel-good movie, lo definiscono Di Stefano e Rampoldi, che nasce dall'incontro tra "due sconfitti". Due sconfitti che, insieme, "generano una vittoria". O meglio, generano la promessa illusoria di una vittoria. E allora, su e giù per l'Italia degli anni Ottanta, quando Franco Battiato cantava "cuccurucucu" sotto un cielo azzurro riflesso negli occhiali specchiati di un ex tennista viveur caduto in disgrazia. Un po' Gigi Rizzi un po' Victor Pecci. Raoul e Felice, unione di fatto tra la pratica di un padre e la teoria di un figlio. Come Vittorio De Sica e Jean-Louis Trintignant, sessant'anni dopo Il Sorpasso.
Paragone ingombrante, ma sensato: Il maestro è l'evoluzione diretta del capolavoro di Dino Risi. Lo è per diametro, per profondità, per linguaggio e per schema narrativo. Epoca diversa, stesse vibrazioni. L'Italia che cambia, che canta, che sogna. "Il Sorpasso è stato centrale, come tutte le commedie italiane di quegli anni", spiegava Andrea Di Stefano, a Venezia, presentando il film, sottolineando quanto i paragoni siano tuttavia relativi, riferendosi alla performance di Favino: "Pierfrancesco non ha bisogno di dimostrare il suo valore, ma non so quanti attori avrebbero potuto portare Raoul Gatti ad una certa temperatura".
Il cinema che serve: la bellezza di essere dei perdenti
Una temperatura misurata attraverso un cinema che non ha paura di giocare, credendo in ciò che racconta (e non è scontato). Un cinema che dialoga - finalmente - con il pubblico. Niente effetti, niente intellettualismi borghesi. Solo sostanza, solo cuore. Di campo in campo, di sconfitta in sconfitta. Piangendo e ridendo, mischiando le smorfie e i calzini sporchi. Ci emozioniamo, ci rivediamo in Raoul e ci rivediamo in Felice. Azzeriamo le distanze con i nostri sentimenti. A questo servono i film, questa dovrebbe essere la luce per il cinema italiano: raccontare, raccontarci. Puntare alla semplicità, palleggiando d'effetto, scoprendo il lato debole, senza timore e senza vergogna.
Strano pensarlo, ma è così: schiacciati da una società votata alla perfezione, scandita da reel tutti uguali e da falsi profeti, Il Maestro è un gentile ma potente reminder su quanto, secondo Favino, "Si può vivere anche senza essere i numeri uno". Del resto, "Oggi c'è l'ossessione della vittoria, di dare un'immagine di sé iper vittoriosa, come se ci dovessimo vergognare di non essere all'altezza". Eppure, è proprio il fallimento a indicare la giusta direzione, dettando il tempo e il ritmo. Sempre a due metri dalla linea di fondo. Proprio lì, dove poter finalmente essere liberi di sorridere.