Recensione My Father - Rua Alguem 5555 (2003)

Esce 'My father', sofferto racconto dell'unico incontro tra il dottor Mengele, carnefice dei campi di sterminio nazisti, rifugiatosi in Brasile, e il suo unico figlio, Hermann

Il macellaio di Auschwitz

A poca distanza da un'importantissima quanto difficile visita del Papa tedesco nei campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau, con inusitato tempismo (dovuto in verità alla difficoltà distributiva di un film targato 2004) esce My father - Rua Alguem 555, doloroso viaggio in un presente segnato in modo lancinante dal passato prossimo dei personaggi. Il film di Egidio Eronico affronta in modo sofferto e spesso ritorto il momento dell'unico incontro tra Mengele, dottore macellaio del campo di sterminio polacco, e il suo unico figlio, Hermann.
Fuggito prima in Argentina, poi in Paraguay e infine in Brasile, a Manaus, Mengele ha vissuto una vita da ricercato internazionale, spostandosi di baracca in baracca, da periferia in periferia. E il piccolo Hermann ha sempre creduto che suo padre fosse disperso in Russia, sul fronte orientale, fino a sapere la dura verità all'età di 15 anni.
Solo da adulto il figlio si rincontrerà, per un breve periodo, con il padre fuggiasco. Il film documenta, a partire dal saggio dello storico tedesco Peter Schneider, l'incontro che effettivamente avvenne a Manaus tra i due Mengele, padre e figlio, offrendoci un lungo e frammentato flashback a partire dal ritorno di Hermann in sudamerica per il ritrovamento dei resti del macellaio, deceduto mentre nuotava nell'oceano.

Eronico sviluppa tre piani temporali che non sempre si intersecano in modo impeccabile. Il presente filmico - la data del ritrovamento delle spoglie - i giorni della permanenza di Hermann a casa del padre - la parte centrale e più cospicua della pellicola - e tanti piccoli excursus nel passato remoto del figlio, utili a delineare con maggio precisione i dettagli della narrazione.
Ci vengono offerti due momenti di incontro e confronto molto densi e puntuali. Quello tra Hermann e l'avvocato della comunità ebraica, oltre che ovviamente quello tra i due Mengele.
Nel primo vengono messe di fronte due concezioni ben distinte, ma non per questo antitetiche, dell'interpretazione dell'olocausto. Quella affermata dal figlio, interpretato da Thomas Kretschmann, sull'eccezionalità dei crimini commessi, sull'assolutezza del male inferto da una casta di demoniaci criminali all'umanità intera, contrapposta alla harendtiana "banalità del male", tesi sostenuta dall'avvocato israelita, F. Murray Abraham, che rifugge una spiegazione, per così dire, sovrumana del fenomeno, per analizzarne realisticamente la semplicità del fattore umano che si celava dietro tali orrori.
Entrambe le posizioni si vanno a scontrare con l'ottusa e inscalfibile certezza di Mengele (il sempre bravo Charlton Heaston), convinto non solo di aver agito in modo ineccepibile, ma anche "di non aver mai ucciso nessuno con le sue mani".
C'è spazio dunque per riflettere, vista la densità di ogni dialogo e alla bravura degli attori che li inscenano.

Il film, però, mostra difficoltà di tenuta alla distanza. I piani temporali si vanno confondendo, per una non precisissima gestione dei flashback, la colonna sonora, dopo aver centrato il suo scopo di estraniazione e disorientamento nella prima parte, a lungo andare diventa fastidiosa e ridondante. Anche la sceneggiatura rischia a più riprese di scivolare nel manierismo.
La bontà dell'idea viene dunque stemperata da una realizzazione non efficacissima, ma il film riesce comunque a porsi, e al giorno d'oggi è raro, come spunto d'indagine e di riflessione.