Frequente è l'accostamento che si azzarda tra il Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg e Flags of our fathers di Clint Eastwood. Accostamento che si può tranquillamente lasciare agli appassionati del dibattito tecnico/estetico sul testo cinematografico (tra i quali pure noi ci inseriamo di frequente e volentieri), perché si arena alla superflua querelle su quale sia la miglior scena di sbarco militare, quale più appassionante, quale più avvolgente.
Bisogna anzitutto far notare che tra gli emozionali (Spielberg) e i puristi (Eastwood) si inserisce, pietra miliare del genere, Il giorno più lungo, datato 1962. Non c'è nessuno che abbia inventato nulla, non esiste sostanzialmente nessuna innovazione nel cinema di guerra moderno rispetto a quel che è già stato codificato dalle pellicole maccartiste degli anni '60.
I punti in comune, dunque, si arenano su una duplice rappresentazione di uno dei momenti più incerti e spettacolari dell'azione bellica durante il secondo conflitto mondiale, quello dello sbarco: Omaha beach da un lato, il sasso fortificato di Iwo Jima dall'altro.
La prospettiva, l'interesse dei due film, navigando nello stesso mare della guerra, diverge radicalmente.
Spielberg è interessato alla guerra, al substrato del fango, dei tascapane, degli elmetti e delle gallette di cui la guerra è composta. Scava, indaga i suoi personaggi, ma sempre rivolto verso la deadline del fronte, del confronto armato. Arretra al massimo fin nelle retrovie, si riposa un attimo infagottato contro un muro, ma la sua mente è rivolta in avanti, nel cuore del territorio nemico. Vuole, a tutti i costi, trovare Ryan, che sta laggiù, in una striscia lontana di terreno riempito da divise di un altro colore.
Opposto è l'orizzonte di Eastwood.
Il suo flettere e riflettere sul momento bellico in sé, non è altro che un rafforzare la sua indagine sul cosiddetto fronte interno, vale a dire su tutta la macchina-paese che sta dietro ad uno sforzo militare, che sostiene, non importa se spinta da responsabilità, calcoli o semplice patriottismo, il fronte in quanto tale. Operazione che si muove a partire, ovviamente, da alcuni singoli, punto di vista necessario per cogliere in profondità tutti gli aspetti "umani" che collegano e muovono le retrovie rispetto al fonte vero e proprio.
Vengono così scelti quegli uomini che, piantando la seconda bandiera sul monte Suribachi, entrarono nella storia per una fotografia che li rese icone immortali di un paese che stava vincendo la strenua battaglia contro il nemico.
Il valore del simbolo come veicolo e catalizzatore di qualunque sforzo umano è tema centrale della pellicola. E orrendamente simbolica diventa l'azione di guerra nella pellicola. Non si fa minimamente riferimento all'unicità delle piste aeree in tutto lo scacchiere strategico del fronte Pacifico, che hanno reso la conquista proprio di quello scoglio di fondamentale importanza per il corso della guerra. L'unico avvenimento percettibilmente rilevante è l'aver piantato quella bandiera, l'aver immortalato un momento che, da sostanzialmente inutile qual è stato storicamente, si imprime nella pellicola fotografica come evento capace di decisività nel grande quadro della guerra.
Da questo momento la lotta con le armi si fa flashback, retroterra denso e crudo di un sistema paese, come quello americano, che più di altri sottolinea l'importanza di un fronte interno, essendo lontanissimo dal fronte e scevro di barbarie e distruzioni subite sul proprio suolo.
Emergono così quegli aspetti che molti hanno segnalato come qualcosa di negativo, quegli inevitabili incastri con la politica e le logiche di reperimento di danaro che muovono e sostengono ogni conflitto.
Non ci troviamo dunque di fronte, come si è sostenuto, a una banale accusa al potere di controllo della politica sulle vite dei singoli. Siamo in presenza di un'attenta analisi dell'iconografia, della sfera della percezione imperfetta e sublimata come motore ultimo del sostegno alla politica e, dunque, alla guerra. Quel che potrebbe apparire grottesco (pensiamo alla scena della bandiera piantata su un podio in mezzo ad uno stadio, tra sventolii di bandierine e majorettes) è duro, cinico, ma necessario.
La riflessione di Eastwood si rivolge a quel che sta dietro la pallottola, il fucile, le mostrine, dando vita ad un film classico, dal respiro ampio, che rimane tuttavia interlocutorio: che il classicismo della forma si unisca alla tematica con mera funzione didascalica?
Noi crediamo di no, anche se il rischio rimane.
Solamente Letters from Iwo Jima, che dà vita insieme a Flags ad un corpo unico di narrazione cinematografica, potrà sciogliere appieno il dubbio.