Nessuna madre può fare tanto per i suoi figli come fa Dio per le sue creature. E tu vuoi rifiutare tutto questo? Dare via tutto? Rinunciare al gusto delle ciliegie?
La ragion d'essere di un festival cinematografico, prima ancora dei red carpet e dei premi, è essenzialmente questo: essere un tramite fra un cinema spesso 'invisibile' e un pubblico che, altrimenti, non avrebbe mai occasione di conoscere determinati registi. Certo, non sempre l'effetto è dirompente o immediato, e talvolta l'influsso di un festival nella recezione di un autore si avverte in maniera graduale e soltanto a distanza di anni; eppure i festival costituiscono un 'ponte' indispensabile, capace di mettere in comunicazione realtà lontanissime anche e soprattutto in senso geografico.
È grazie ai festival se oggi, ad esempio, gli spettatori più aperti e curiosi hanno la possibilità di vedere ed apprezzare con relativa facilità le opere di Asghar Farhadi, fra i massimi talenti del panorama mondiale, arrivato addirittura sul palco degli Oscar, e prima ancora di Jafar Panahi, celebrato in tutto il mondo a dispetto di un regime che ha tentato in ogni maniera di soffocare la sua 'voce'. E se il cinema iraniano non rappresenta più una sorta di UFO confinato nelle minuscole sale dei cineclub, ma è invece il frutto di un'industria in grado di coinvolgere ampie platee e di far parlare di una vera e propria Nouvelle Vague, gran parte del merito va attribuito senz'altro a un cineasta che, di festival in festival, ha fatto da apripista a questo fenomeno: Abbas Kiarostami.
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La realtà ad altezza di bambino
"Era uno di quei rari artisti con una speciale conoscenza del mondo", ha dichiarato di lui oggi, in occasione della sua scomparsa, uno dei suoi estimatori più appassionati, Martin Scorsese; "Per usare le parole del grande Jean Renoir: la realtà è sempre magica. Per me, questa affermazione sintetizza la straordinaria opera di Kiarostami". Ed è stata infatti l'osservazione della realtà il punto di partenza del regista di Teheran, fin dai suoi primi cimenti dietro la macchina da presa, negli anni Settanta: da quel primissimo cortometraggio di soli dieci minuti, l'ironico The Bread and Alley, realizzato nel 1970, in cui la passeggiata di un bambino viene turbata dalla comparsa di un cane minaccioso, ai suoi lungometraggi d'esordio (circa un'ora di durata ciascuno), The Experience (1973) e soprattutto Il viaggiatore (1974), in cui il dodicenne Qassem Julayi ricorre ad ogni mezzo e affronta una piccola avventura pur di arrivare a Teheran e assistere a un'importante partita di calcio.
La descrizione della vita quotidiana, sulla scia del Neorealismo italiano, e ancor di più la capacità di porre la macchina da presa all'altezza dello sguardo dei bambini e degli adolescenti, al centro di tutta la prima fase della sua produzione, rendono Abbas Kiarostami un erede spirituale di maestri come Roberto Rossellini e François Truffaut (non a caso Il viaggiatore verrà paragonato a I quattrocento colpi) e gli valgono gli elogi di un gigante come Akira Kurosawa, fra i primi ad accorgersi del talento del cineasta iraniano. E fin dai suoi primi film, Kiarostami punta l'attenzione su una componente etica - la formazione morale dei suoi protagonisti, tanto giovani quanto adulti - che ritornerà sia nel melodramma a sfondo sociale The Report (1977), sia nello splendido Dov'è la casa del mio amico? (1987), la pellicola che inizierà a farlo conoscere alle platee straniere.
Ricompensato con tre premi al Festival di Locarno 1989, Dov'è la casa del mio amico? segue l'odissea di Ahmed, un bambino di otto anni disposto a imbarcarsi in una ricerca semidisperata pur di consegnare al coetaneo Mohamed, suo compagno di banco, il quaderno preso per errore a scuola, evitandogli così il rimprovero del maestro. Dietro l'apparente minimalismo del racconto, Kiarostami costruisce un'opera percorsa da un profondo senso di emozione, in cui la precoce moralità del piccolo Ahmed si infrange contro l'indifferenza del mondo degli adulti, mentre il realismo svela, tra le sue pieghe, frammenti di abbagliante poesia (il calare della sera e l'irruzione del vento nel magnifico prefinale).
Il metacinema e il "primo piano" sulla realtà
Se l'indagine sul mondo dell'infanzia prosegue, nel 1989, con il documentario Compiti a casa, il 1990 segna un anno di svolta per Abbas Kiarostami: sia a livello di visibilità internazionale, sia nel suo approccio al racconto cinematografico, con inedite sperimentazioni che mescolano i linguaggi della fiction e del documentario. Esempio emblematico di tale evoluzione è Close Up, in cui Kiarostami ricostruisce la vera vicenda di Hossain Sabzian, un uomo accusato di truffa dopo essersi spacciato per un noto regista, Mohsen Makhmalbaf, affidando la ricostruzione degli eventi alle persone coinvolte nei fatti. In un bizzarro ibrido fra reportage, docufiction e cinéma vérité, Kiarostami crea un corto circuito tra realtà e finzione, affrontando i temi dell'identità e la riflessione sul cinema e sulla sua essenza di verità. Aspetti che verranno ripresi nella sua opera successiva, E la vita continua, altro esempio di amalgama tra fiction e documentario, presentato al Festival di Cannes 1992 nella sezione Un Certain Regard: un'incursione nel villaggio di Koker, già teatro di Dov'è la casa del mio amico?, per raccogliere testimonianze di vita dopo il terremoto che aveva colpito il Nord dell'Iran.
Strettamente correlato a E la vita continua è il film seguente, Sotto gli ulivi, in cui Kiarostami accantona (ma solo in parte) l'elemento documentaristico ma torna a parlare di cinema e metacinema, mettendo in scena in maniera fittizia le riprese di E la vita continua e focalizzandosi sulla figura di Hossein, un muratore locale ingaggiato come attore nel film di Kiarostami e realmente innamorato di Tahere, una ragazza che nel documentario 'interpreta' sua moglie. Nell'epilogo, infine, il naturalismo cede il posto alla poesia (e infatti anche la musica torna ad irrompere nel racconto), nel corso di un magistrale piano sequenza considerato una delle pagine più alte del cinema di Kiarostami. Presentato in concorso al Festival di Cannes 1994, Sotto gli ulivi è l'opera della definitiva consacrazione del regista, tre anni prima di quello che sarà canonizzato come il suo capolavoro.
Il vento, le ciliegie e la bellezza intorno a noi
Vincitore della Palma d'Oro al Festival di Cannes 1997 e da allora inserito puntualmente nelle classifiche dei migliori film di tutti i tempi, Il sapore della ciliegia costituisce una toccante riflessione sul valore dell'esistenza e sulla necessità di convivere con il dolore, veicolata attraverso i dialoghi fra Badii, un uomo deciso a suicidarsi ma in cerca di qualcuno che accetti di seppellire il suo corpo, e il tassidermista Bagheri, una delle persone a cui Badii si rivolge per la sua bizzarra richiesta, il quale proverà a trasmettergli il suo amore per la vita. Anche in questo caso, il rigore stilistico di Kiarostami - camera fissa, lunghi piani sequenza, l'assenza di musica extradiegetica - non imbriglia il film in una dimensione intellettualistica, ma al contrario regala elementi di intenso pathos, specialmente nella suggestiva parte conclusiva.
Ormai fra i più acclamati autori del panorama internazionale, Abbas Kiarostami continua a riscuotere consensi con Il vento ci porterà via, che al Festival di Venezia 1999 viene insignito del Gran Premio della Giuria. Ambientato fra le vie di un piccolo villaggio del Kurdistan, meta dell'indagine di quattro giornalisti, Il vento ci porterà via mescola quella sottile comicità tipica di buona parte della produzione del regista con l'incanto nei confronti della natura e della semplicità del quotidiano, all'interno di un racconto ambiguo ed avvolgente. Si torna invece a una maggiore sperimentazione, narrativa e stilistica, in Dieci, che nel 2002 riporta Kiarostami in concorso al Festival di Cannes con un altro dei suoi film più applauditi. Il titolo, in questo caso, si riferisce alle dieci scene in cui è suddiviso il film: dieci conversazioni della protagonista, una fotografa alla guida di un automobile, con il passeggero di turno, incluso l'irrequieto figlioletto Amin, testimone del divorzio dei genitori. Girato tutto all'interno dell'auto, con primi piani fissi e dialoghi che paiono improvvisati, Dieci punta sulla semplicità della messa in scena per trasmettere allo spettatore frammenti della società e della cultura iraniane; difficile non cogliere nel film un modello per il recente Taxi Teheran, diretto nel 2015 dal 'discepolo' di Kiarostami, Jafar Panahi.
Gli ultimi film, fra sperimentazioni e "copie conformi"
L'ultima fase della carriera di Kiarostami si divide fra ulteriori esperimenti stilistici, inclusi i cinque, lunghissimi piani sequenza di Five (2003) e i novanta minuti di primi piani di cento attrici di Shirin (2008), rinnovate collaborazioni con il fido Panahi, per il quale Kiarostami firma la sceneggiatura dell'apprezzato Oro rosso (2003), accolto in maniera controversa in patria, il documentario 10 on Ten (2004) e le partecipazioni al film collettivo Tickets (2005), insieme a Ken Loach ed Ermanno Olmi, e all'antologia A ciascuno il suo cinema (2007); nel 2010 avviene invece il ritorno ai lungometraggi di finzione con il suo primo film girato interamente al di fuori dell'Iran. Ambientato nelle campagne e nei paesini della Toscana, Copia conforme rappresenta un ulteriore momento di evoluzione nello stile e nella poetica del regista iraniano, impegnato a ritrarre la giornata trascorsa insieme da un rinomato critico d'arte britannico, James Miller, e un'affascinante antiquaria, con la quale James inizia un ambiguo gioco di corteggiamento e di identità fittizie.
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Se Kiarostami si spinge in territori per lui inediti, in Copia conforme ritornano comunque alcuni elementi chiave del suo cinema, a partire dalla dicotomia tra finzione e realtà, laddove è l'arte della recita a determinare le identità dei personaggi (quale rapporto lega i due protagonisti?). A illuminare il film, inoltre, è una Juliette Binoche di travolgente magnetismo, alla quale viene attribuito il premio come miglior attrice al Festival di Cannes (e nel suo discorso di ringraziamento, la diva francese dedicherà il trofeo a Jafar Panahi, tenuto in arresto dal regime iraniano). Due anni più tardi, Kiarostami partecipa per la quinta volta al concorso di Cannes con quello che si rivelerà essere il capitolo conclusivo del suo percorso artistico: Qualcuno da amare, il singolare incontro fra l'anziano professore Takashi, la giovane studentessa Akiko, che lavora in segreto come ragazza squillo, e il suo gelosissimo e ignaro fidanzato Noriaki, nella cornice della metropoli di Tokyo. Un'opera che conserva solo in parte il fascino e la poesia del film precedente, nonché l'ultimo tassello di una filmografia assolutamente unica, attraverso la quale, anno dopo anno, Kiarostami ha saputo modellare il linguaggio del cinema secondo modalità sempre nuove e sorprendenti.