Recensione Le tre scimmie (2008)

Nuri Bilge Ceylan opera una decisa, ma coerente svolta nel suo cinema. La narrazione si fa più complessa, alle impressioni si sostituisce una storia forte, per un potente dramma familiare premiato per la regia al Festival di Cannes.

Il buio che avvolge

I fari di un auto nella notte illuminano una strada sterrata che si perde nella boscaglia. L'auto si consegna al buio che progressivamente riempie lo schermo. Poi un botto. Comincia così il nuovo film di Nuri Bilge Ceylan presentato e premiato all'ultimo Festival di Cannes con il riconoscimento per la miglior regia. Effettivamente Ceylan è uno che con la regia sa far miracoli. Il suo è un cinema pittorico, che fa ogni volta dell'inquadratura un dipinto, gestendo al meglio i corpi e il territorio e lasciandosi aiutare nel suo intento dalle possibilità della fotografia, caratterizzata nel caso de Le tre scimmie da toni scuri e un filtro leggermente seppiato, che avvolgono i personaggi nelle trame di un'oscurità che rappresenta la miseria morale, lasciando spiccare solo il rosso che appartiene alla protagonista e il bianco delle camicie degli uomini. E per la prima volta il regista turco mette alla prova i suoi protagonisti, li strappa via da quella eterna attesa (che comunque è presente anche in questa storia) per sfidare le loro reazioni di fronte al dispiegarsi della vita coi suoi drammi.

Ceylan opera una decisa, ma coerente svolta nel suo cinema. La narrazione si fa più complessa, alle impressioni si sostituisce una storia forte.

Al centro di essa v'è una famiglia messa in crisi dall'insolenza del Potere e dal sadismo della Verità, nonché da un passato che ha lasciato in eredità una tragedia dal tormento perpetuo. Dopo l'incidente iniziale, il capofamiglia accetta di finire in galera, in cambio di soldi, al posto del politico di cui è autista, la moglie finisce col concedersi allo stesso uomo per ottenere il denaro necessario al figlio per comprare uno scuolabus, e il ragazzo si fa tormentare da ciò che vede succedergli intorno e dai sensi di colpa. Tutti e tre provano a fare come le sagge scimmiette della leggenda giapponese, a ignorare la realtà per non dover affrontare responsabilità e rimpianti, finendo inevitabilmente col restare vittime di un indolente gioco al massacro. Mentre l'uomo è costretto in prigione, madre e figlio cercano una difficile sopravvivenza in un palazzo pericolante, che sembra tagliato a metà, che dà sul mare (l'infinito) e sui binari della ferrovia (le possibilità), ma li trattiene di fatto in una gabbia dove è impossibile trovare sollievo.

L'essenza de Le tre scimmie sembra essere tutta nella canzone che fa da suoneria del cellulare della donna e che è ripetuta all'infinito nel film: "Ama ma non ti far amare, soffri d'amore..."

Il dramma familiare di Ceylan si fa manifesto dell'incomunicabilità cara ad Antonioni, della negazione della serenità in un mondo dove politica e potere possono disintegrare il privato, di un tentativo di risveglio dal torpore del quotidiano destinato al fallimento. I ritmi sono quelli del cinema orientale, con i tempi dilatati, inquadrature fisse e personaggi che più che parlare, preferiscono guardarsi e contemplare. Gli incidenti, le morti, gli azzardi sessuali restano sempre fuori campo, ma non la violenza degli schiaffi che si abbattono sul volto colpevole della donna. I primi piani comandano e di tanto in tanto addormentano la narrazione, mentre il campo lungo racconta senza enfatizzare, con i protagonisti che si muovono in essi, senza bisogno di essere cercati. Ceylan riesce a far parlare di loro anche il tempo, tra la pioggia iniziale, le nuvole nere che dominano il cielo di Istanbul e i tuoni che chiudono il film. Desta qualche perplessità la sottotrama legata al fantasma del passato, ma la potenza del film, che si nutre del sudore e del pianto dei corpi che racconta, non ne è scalfita.