Ich bin Khan
"Al mondo esistono solo due tipi di persone: quelli buoni che fanno buone azioni e quelli cattivi che commettono cattive azioni": questa frase, che pronuncia la mamma del piccolo indiano di fede musulmana Khan, emarginato perché vittima della sindrome di Asperger, racchiude in un colpo solo tutto l'universo di valori di My Name is Khan. La dichiarazione, in realtà, può adattarsi bene a descrivere le basi su cui si fonda l'intera sterminata produzione di Bollywood, costruita proprio sulla schiettezza e la semplicità manichea delle storie, sulla ricorrenza di situazioni tipiche (in cui primeggia la storia d'amore tra i due attraenti protagonisti), su uno stile visivo colorato, estetizzante, patinato, ritmicamente segnato dall'incalzare della colonna sonora.
Dati questi presupposti My Name is Khan, diretto dal giovane astro nascente di Bollywood Karan Johar, e interpretato da una delle coppie più acclamate e macina-incassi del cinema indiano, Shah Rukh Khan e Kajol, sarebbe soltanto l'ennesimo blockbuster in salsa curry. Gli ingredienti, infatti, sono sempre quelli: la durata chilometrica, la componente musicale, la recitazione calcata (in particolare quella di Shah Rukh Khan nelle vesti di autistico), il riferimento ad analoghi successi americani (in questo caso soprattutto Rain Man e Forrest Gump, ma sotto sotto anche Mr. Smith va a Washington). Invece le cose non stanno proprio così, perché il regista Karan Johar e la sceneggiatrice Shibani Bathija tentano in questo caso un approccio quasi del tutto inedito: la commistione dei temi e dell'estetica del cinema di Bollywood con un'inedita attenzione per l'impegno politico e sociale, ed è probabile che questa sia la ragione che ha incuriosito i selezionatori della Berlinale tanto da includere il titolo fuori concorso. Khan, infatti, dopo la tragedia dell'undici settembre, si trova a subire discriminazioni non soltanto per la sua malattia, ma anche per la sua religione. A partire da questa svolta "politica", il film diventa una sorta di pamphlet di denuncia contro i soprusi che la popolazione di credo islamico è destinata a soffrire dopo l'inaugurazione della politica del terrore americana. La crociata di Khan, che vuole parlare a tutti i costi con il presidente degli Stati Uniti solo per dirgli: "Il mio nome è Khan e non sono un terrorista", finisce per intercettare il lamento di tutti i bisognosi e gli emarginati degli Stati Uniti, incluso un gruppo di afroamericani devastati dall'uragano Katrina.
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