"Non vado mai al cinema." "Ah, no? Perché no?" "La vita è troppo breve."
Lo scambio di battute fra il produttore esecutivo Griffin Mill e la pittrice June Gudmundsdottir avviene in un'atmosfera sospesa fra voyeurismo, seduzione e sottile minaccia. Nella penombra di una serata losangelina, Griffin parla al telefono con June mentre la spia attraverso la vetrata della sua casa; intanto la giovane donna, ignara dello sguardo di Griffin, continua a dipingere un'ampia superficie azzurra, come quella "terra dei ghiacci", l'Islanda, da cui dice di provenire. Il tono della loro conversazione, casuale e scherzoso, contiene un accenno di flirt, ma anch'esso fa parte di una convenzione del noir: è la scintilla di attrazione tra la femme fatale e l'antieroe di turno poco prima che quest'ultimo penetri nei territori del delitto, sbarazzandosi del marito di lei. I protagonisti di Robert Altman, del resto, non è solo un film sul mondo del cinema, ma sul cinema stesso: sui suoi modelli narrativi, i suoi cliché e il suo costante sforzo di adesione alle attese del pubblico.
Non è un caso dunque che June, impersonata dall'attrice italiana Greta Scacchi, sia l'unico personaggio immune alla fascinazione per la settima arte. Lei è letteralmente un'estranea a Hollywood, dichiara di amare le parole ma non le "frasi intere" e, alle esequie del suo fidanzato sceneggiatore, ne bolla il lavoro in maniera lapidaria come "straordinariamente privo di talento". "June è il personaggio del quale uno come Griffin sognerebbe si innamorasse il protagonista del suo film", commenterà in proposito Robert Altman; "Qualcuno che non ha niente a che fare con il cinema; tranne il fatto che è il personaggio cinematografico definitivo. June è il cinema". Ma d'altra parte, il gioco delle ambiguità fra identità individuale e identità cinematografica è alla base de I protagonisti, opera-spartiacque nell'itinerario del regista di Kansas City, quella che lo avrebbe riportato alla ribalta dopo oltre un decennio trascorso ai margini di Hollywood.
La rivincita di Robert Altman
Dopo la curiosa esperienza di Popeye - Braccio di Ferro, diretto nel 1980 sotto l'egida della Paramount e della Walt Disney e rivelatosi il titolo più divisivo della sua lunga carriera, Robert Altman aveva deciso di dedicarsi a progetti più 'piccoli' che gli consentissero maggior libertà rispetto alle regole delle major: talvolta con risultati eccelsi (i drammi di derivazione teatrale Jimmy Dean, Jimmy Dean e Streamers), talaltra con minor fortuna (la teen-comedy Non giocate con il cactus), in alcuni casi con la possibilità di sperimentare percorsi inediti, come per il mockumentary televisivo Tanner '88. Nel 1991, mentre sta cercando i finanziamenti per realizzare America oggi, Altman riceve la proposta di portare sullo schermo il romanzo Il giocatore di Michael Tolkin, sulla base di un adattamento firmato dallo stesso scrittore; prodotto da compagnie indipendenti, The Player (questo il titolo originale) approda così nelle sale americane il 10 aprile 1992, registrando cinque milioni di spettatori solo negli Stati Uniti.
Nel frattempo, sull'altra sponda dell'Atlantico, il successo del film è anticipato dall'entusiasmo con cui viene accolto al Festival di Cannes, dove ottiene i premi per la regia di Robert Altman e per l'interpretazione di Tim Robbins. Sull'onda dell'ottimo responso di critica e pubblico, I protagonisti si aggiudicherà inoltre due Golden Globe (miglior commedia dell'anno e miglior attore), due BAFTA Award (miglior regia e sceneggiatura) e tre nomination agli Oscar, contribuendo a far riscoprire la filmografia di Altman a una nuova generazione. A favorire il consenso popolare della pellicola è una sostanziale 'accessibilità' che, tuttavia, non le impedisce di far leva sugli elementi del metacinema, adoperati sia in chiave ironica, sia come riflessione sulla dicotomia fra le ragioni dell'arte e quelle del mercato: sotto la lente d'ingrandimento di Altman e Tolkin c'è la "fabbrica dei sogni", ma la Hollywood del film è specchio e sineddoche dell'America intera.
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Tim Robbins, un altro American Psycho
Al trentatreenne Tim Robbins, divo di Bull Durham, è affidato il compito di incarnare la suddetta industria: il suo Griffin Mill, produttore esecutivo in cui charme e sgradevolezza convivono in ugual misura, è un perfetto figlio della propria epoca, uno yuppie rampante in giacca e cravatta sulla falsariga dell'ellisiano Patrick Bateman (American Psycho era stato dato alle stampe appena un anno prima). Ma fin dall'inizio, la sicumera derivante dai suoi status symbol (il prestigio professionale, le frequentazioni del jet-set, gli Oscar in bella mostra sulla mensola) è increspata da una duplice paranoia: il timore di essere rimpiazzato da un nuovo collega, il mellifluo Larry Levy di Peter Gallagher, e l'angoscia suscitata da una serie di messaggi minatori. Nella descrizione della routine di uno studio cinematografico, tracciata in equilibrio fra realismo e satira, ecco allora affiorare una componente da thriller: chi sta mettendo a repentaglio la vita di Griffin?
Se in molti suoi film Altman aveva proceduto alla destrutturazione dei generi (il western, l'hard-boiled, la fantascienza), ne I protagonisti invece i generi si mescolano e si intrecciano, ma con sorprendente fluidità. A evidenziare l'essenza intimamente noir dell'opera sono i poster che campeggiano sulle pareti dell'ufficio (Vertigine, M, il mostro di Dusseldorf, Viale del tramonto, i classici di Alfred Hitchcock), ma anche il senso di fatalità ineluttabile che sembra guidare le azioni criminali di Griffin e perfino qualche pennellata di cupo surrealismo: le luci al neon che conferiscono alla pozzanghera sulla scena del delitto una macabra tinta rossastra, correlativo dell'abisso morale in cui Griffin è appena precipitato; o la sagoma di Tim Robbins che emerge da una vasca termale, nudo e completamente ricoperto di fango scuro, con le sembianze di una mostruosa creatura della palude.
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A morte lo sceneggiatore
Se pertanto, per diversi aspetti, I protagonisti è un grande thriller sulla paranoia, le ossessioni di Griffin rischiano di sconfinare nell'allucinazione. E qui partono geniali tocchi di comicità grottesca, come i silenziosi pedinamenti del poliziotto Paul DeLongpre di Lyle Lovett o la scena in cui, nel corso di un interrogatorio, la detective Susan Avery di Whoopi Goldberg sventola degli assorbenti davanti alla faccia di Griffin, per poi deridere le sue indignate rivendicazioni di innocenza. Ma sempre nell'ambito del "cinema nel cinema", il plot noir dell'omicidio dello sceneggiatore David Kahane (Vincent D'Onofrio) si carica di richiami metatestuali, dall'eco di Joe Gillis, il protagonista di Viale del tramonto, alla messa in discussione del ruolo stesso dello scrittore: "Stavo riflettendo su quanto sia interessante il concetto di eliminare lo sceneggiatore dal processo artistico del film: se riuscissimo a disfarci degli attori e dei registi, avremmo fatto un bel passo avanti".
Nel connubio fra arte e industria (leitmotiv più o meno esplicito per la maggior parte dei dialoghi), quest'ultima sembra destinata a cannibalizzare la prima. Nel celebre incipit, un piano sequenza di quasi otto minuti che chiama in causa direttamente L'infernale Quinlan e Nodo alla gola, vediamo Buck Henry, lo sceneggiatore de Il laureato, che tenta di vendere a Griffin il soggetto per Il laureato, parte seconda ("La signora Robinson ha avuto una paresi e non può parlare"). Più avanti, si fa riferimento al fatto che sia stato un test screening a far riscrivere il finale di Attrazione fatale, decretandone l'immenso successo; e una sorte analoga toccherà pure ad Habeas Corpus, il film 'autoriale' sponsorizzato da Griffin, la cui coppia di sceneggiatori (Dean Stockwell e Richard E. Grant) rinuncerà al purismo drammaturgico per abbracciare i compromessi di un tipico lieto fine hollywoodiano, con Bruce Willis che irrompe eroicamente sulla scena per salvare la vita di Julia Roberts.
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Palme, rose e serpenti... e un gelo infinito
Il momento clou di questo meta-film, la più smaccata concessione di Robert Altman alla satira tout court, non è che il culmine della partecipazione in massa degli addetti ai lavori al nuovo progetto del regista di Nashville. Sono una sessantina, infatti, i volti noti di Hollywood che si prestano a comparire ne I protagonisti nella parte di loro stessi, in un continuo corto circuito tra realtà e finzione che ha però l'effetto di favorire la credibilità del microcosmo messo in scena da Altman. Fra gli altri si distinguono Harry Belafonte, John Cusack, Peter Falk, Jeff Goldblum, Elliott Gould, Anjelica Huston, Jack Lemmon, Andie MacDowell, Nick Nolte, Burt Reynolds, Susan Sarandon, Rod Steiger, e ancora Scott Glenn e Lily Tomlin sul set di un fittizio noir e Cher in un fiammante abito rosso: tutti tasselli di un immaginario collettivo di cui Altman ci svela la dimensione 'quotidiana' con una naturalezza che, in qualche modo, ne incrina lo statuto iconico.
Nel suo saggio Il lungo addio - L'America di Robert Altman, Emanuela Martini ci illustra così la California patinata de I protagonisti: "Un mondo di acqua minerale naturale e di Jacuzzi, di giardinetti bene ordinati e di uffici appropriatamente felpati, di cerimonie pompose e di veleni che circolano liberamente nel minimalismo asettico dei ristoranti. Palme, rose e serpenti. E un gelo infinito, che né l'omicidio né la satira riescono a scalfire". Si tratta di un gelo che trova una personificazione emblematica nello sguardo vitreo di Tim Robbins, tanto più privo di umanità quanto più sfuma e si allontana il peso della sua colpa. Un delitto senza castigo che, nel supremo sberleffo dell'epilogo, verrà fagocitato insieme a tutto il resto dalla macchina hollywoodiana, per diventare l'ennesimo dramma edulcorato ad uso e consumo del grande pubblico.
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