Ti avvolge inconsciamente e in silenzio: è il tanfo di sangue rappreso, che riveste come un secondo abito la pelle della famiglia protagonista de I Liviatani, primo lungometraggio di Riccardo Papa, già autore di numerosi videoclip musicali, e di un interessante e commovente docu-film sulle case famiglie intitolato Supermanz. Da questo progetto, Papa riprende due elementi cardini della struttura narrativa del suo film di debutto, come la famiglia e il nucleo domestico, rovesciandoli completamente per immetterli in un universo dai toni perturbanti e atmosfere tanto eleganti, quanto ricolme di ansia e macabro umorismo. Disponibile dal 27 luglio su tutte le principali piattaforme digitali, I Liviatani riesce così a essere accessibile a un pubblico variegato e ormai avvezzo alla fruizione casalinga di film tradizionalmente destinati alle sale cinematografiche.
Facendo di necessità virtù, il regista e i produttori non hanno avuto timore di puntare su queste nuove possibilità di visione, nonostante il cinema e le sue sale rimangano una costante nella vita di tutti gli amanti di questo mondo, come raccontatoci dallo stesso Papa. "Credo che il Covid non abbia fatto altro che accelerare un'evoluzione fisiologica. Ma non credo che le piattaforme si sostituiranno alla sala cinematografica. Saranno un alleato in grado di rendere più longeva e democratica la fruizione di un film, soprattutto in Italia, che non è un paese che si distingue per la presenza di sale cinematografiche sul territorio. Ci sono interi paesini, soprattutto al sud, dove non ci sono sale e per raggiungerne una dovresti percorrere chilometri. Con le piattaforme, invece, un film diventa veramente alla portata di tutti. Per questo credo che sala e piattaforme possano essere complementari. La sala non può morire, sarebbe come strappare un pezzo di cuore all'umanità."
IL CORAGGIO DEI DEBUTTANTI
In equilibrio tra l'incubo e la fiaba dei Fratelli Grimm, Papa consegna ai propri spettatori un mélange perfetto tra il genere horror e la black-comedy, dando vita a un'opera che ribolle delle scorie e dei residui della società odierna, infarcita di rimandi letterari e cinematografici tanto cari alla cultura di massa. I Liviatani - Cattive Attitudini vive di coraggio, lo stesso che ha alimentato il fuoco creativo di numerosi giovani registi, decisi a navigare in acque tempestose, piuttosto che replicare pedissequamente e senza originalità quanto fatto da altri colleghi in passato. Eppure non sempre questo slancio coraggioso ha trovato strada piana davanti a sé. Come Gabriele Mainetti e il suo Lo chiamavano Jeeg Robot anche Papa ha dovuto dribblare numerosi ostacoli, soprattutto produttivi.
"Non è facile esordire, e ancora meno in Italia. Ed è ancora meno facile farlo con un film di genere. Una black comedy come opera prima in Italia è follia pura. E infatti ho girovagato un bel pò alla ricerca di qualcuno che avesse il coraggio e l'intraprendenza di farmi realizzare quello che Antonio ed io avevamo avuto l'ardire di scrivere, fino a quando non ci siamo imbattuti nella Play Entertainment che non ha esitato un attimo e ha subito abbracciato il progetto. Di certo, nell'ultimo periodo le cose stanno cambiando. Forse per una questione generazionale, forse per una questione di mercato. Questo non te lo saprei dire, ma intorno sento più entusiasmo e voglia di innovare. Di fare qualcosa di diverso. Credo che per primi siano i produttori ad essersi stancati dei soliti drammi o delle solite commedie. Credo che loro per primi sentano il bisogno di voler fare qualcosa in cui la gente possa riflettere i propri sogni, le proprie paure."
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LA GENESI DE I LIVIATANI - CATTIVE ATTITUDINI
Famiglie poco funzionali, le paure e i timori che ti assalgono durante l'incontro con la famiglia del proprio partner, riti di passaggio di una vita ordinaria travestiti da eventi straordinari. È I Liviatani - Cattive Attitudini, progetto nato, come raccontatoci da Riccardo Papa, ancor prima di Supermanz, al fine di poter trattare certe tematiche ricorrenti nella sua filmografia, così da togliere via un po' di polvere dal nostro tappeto sociale. "Ho sempre covato l'intenzione di raccontare storie caratterizzate da personaggi connotati da forti rapporti disfunzionali. Non credo che esistano famiglie o rapporti funzionali, poiché non sarebbe naturale, non sarebbe umano. L'idea de I Liviatani nasce dalla volontà di raccontare un rito di passaggio. L'incontro di un ragazzo, nel nostro caso Orlando, con la famiglia della propria fidanzata (o viceversa se vogliamo) è un aspetto universale, che ognuno di noi deve affrontare. Soltanto che Orlando si ritrova al cospetto di una famiglia a suo modo completamente disfunzionale."
Al centro del film troviamo per l'appunto Orlando (Gabriel Lo Giudice), il quale accompagnato dal migliore amico Biagio (Giovanni Anzaldo), si presenta alla famiglia della sua ragazza Diana (Federica Sabatini) per chiederla in sposa. Il divario sociale tra i due ragazzi e I Liviatani (capitanati dagli ottimi Fortunato Cerlino e Antonia Liskova) è evidente. Mosso da dubbi e sospetti circa la vera identità di questa famiglia, Biagio tenterà invano di portare via Orlando da quel mondo. Eppure nessuno dei due può immaginare di essere ospiti di una stramba famiglia di serial-killer.
IL DIAVOLO STA NEI DETTAGLI
È un meccanismo perfettamente oliato e congegnato in ogni singolo pezzo, I Liviatani. Una macchina a orologeria dove tutto è perfettamente studiato, caricando ogni elemento di simbolismi e rimandi polisemantici. La performance attoriale, così fredda, macchinosa, impersonale, ricercata dagli interpreti, è qui perfettamente conformante alla recita protratta da una famiglia volta a nascondere i propri segreti. Gli attori finiscono così volutamente ingabbiati in uno schematismo manierista e in una fissità granitica perfettamente aderente all'ambiente in cui si ritrovano ad agire. Una freddezza d'animo riverberata dalle scelte registiche di Papa, il quale punta su una quasi completa immobilità di una macchina da presa limitata a registrare gli spostamenti, o più piccola azione, compiuta da attori lasciati liberi di muoversi sulla scena. È un gioco di specchi, I Liviatani, dove nulla, anche il più piccolo dettaglio viene lasciato al caso. Tutto ricorre a voler istruire la visione dello spettatore circa il più completo appagamento del colpo di scena finale. Dalla fotografia giocata su un caldo cromatismo, alla predilezione di abiti dai colori rosso sangue e nero morte, fino a una colonna sonora che ricalca le sonorità dei Goblin, ogni elemento in campo è una tessera di un puzzle mortifero, a cui lo spettatore viene chiamato a partecipare tra ansia, sospetti e (solo apparentemente) sorprendenti rivelazioni. Un'attenzione ossessiva per la componente estetica che denota in sé anche un forte affiatamento tra un regista come Papa fortemente convinto nella forza del lavoro di squadra, e i suoi collaboratori, da sempre al suo fianco dall'inizio di questo suo percorso dietro la macchina da presa. "La mia fortuna più grande è stata quella di poter condividere questo lavoro con il mio aiuto regia, Dario Niglio e il direttore della fotografia, Francisco Gaete Vega in primis, insieme ad altri stretti collaboratori, che poi sono diventati anche grandi amici. Insieme, abbiamo condiviso numerosi set (ad esempio Franscisco è stato il direttore della fotografia di Supermanz, oltre che di alcuni altri miei cortometraggi precedenti). Inoltre, ho trovato fin da subito un'intesa con la costumista, Raffaella Toni, che ha letteralmente studiato un approccio cromatico per ciascuno dei personaggi, che per me è uno dei punti di forza del film. Credo che con I Liviatani si sia chiuso per me un ciclo. Non vedo l'ora di intraprendere questa nuova fase del mio percorso e di poterlo fare con tutti i miei attuali compagni di viaggio. Fare cinema non è un lavoro, è un mestiere e non c'è niente di più emozionante del poter trasformare un'esperienza professionale in un'esperienza umana. E questo è solo quando si creano sinergie come quelle che stiamo cercando di fare noi."
Ciò che però stupisce maggiormente è la cura con cui anche un dettaglio a volte ignorato, come la scelta dei nomi dei propri protagonisti, rivela indizi circa le psicologie, i comportamenti e le idiosincrasie di questi feticci della mente. Orlando, Diana, Dafne vivono di retaggi classici (senza dimenticare quel cognome, Liviatani, rimembrante quell'opera imprescindibile di critica sociale che è il Leviatano di Hobbes). Nomen omen verrebbe da dire, e infatti in ognuno di questi personaggi si ritrovano tracce di un passato aureo macchiato di sangue. Una scelta non casuale, quella onomastica, come rivelatoci dallo stesso Papa. "Sia io che il mio co-sceneggiatore, Antonio Cardia, volevamo che i nostri personaggi fossero fortemente caratterizzati già dal nome. E' un modo per entrare in confidenza con il personaggio e cominciare a comporre il quadro dell'immaginario che stiamo elaborando. Le motivazioni che ci hanno spinto a determinate scelte credo si intuiscano seguendo la storia e le azioni che i personaggi stessi compiono. I nomi che abbiamo assegnato sono importanti. Nella storia, nella mitologia, o nella letteratura, col tempo ciascuno di questi nomi ha assunto un valore universale associato a qualità e caratteristiche ben precise. È un aspetto divertente e necessario perché ti permette subito di dare una forte caratterizzazione al personaggio ed è utile per sostenere il tono del film. Discorso a parte merita il cognome della famiglia, I Liviatani del titolo appunto, perché è partito tutto da lì, dal Leviatano di Hobbes, che ci ha aiutato a focalizzare il tema che volevamo trattare, ovvero la critica sociale alla base della nostra storia. E' una sorta di omaggio, quasi. Ci piaceva l'idea di un nome così importante, ma allo stesso tempo volevamo renderlo più musicale, più italiano e soprattutto non volevamo un'associazione così didascalica, in modo da poterci distaccare e affrontare alcune tematiche e passaggi in modo più personale."
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IL FASCINO MORTIFERO DELLA BORGHESIA
Giocato spesso sul paradosso e i contrasti satirici, dove la copertina di un libro sulle buone abitudini e armonie familiari stride con il contesto domestico in cui viene posto, il microuniverso dominato dalla famiglia Liviatani si fa riflesso speculare della nostra società. La famiglia all'apparenza perfetta, elegante, nobile dei Liviatani cela come facilmente intuibile da una fotografia dominata dalle tonalità rosso-sangue, un retaggio criminale. Quella costruita da Papa insieme allo sceneggiatore Antonio Cardia è una narrazione sviluppata in negativo, dove il sorriso ostentato sullo schermo, e quello generato di riflesso nello spettatore, rivela un'aura quasi macabra. È l'apoteosi della decadenza borghese e dell'ipocrisia di un ideale di famiglia promulgato allo sfinimento da campagne a noi fin troppo conosciute come il "family day". Volgendo le spalle al passato, Papa recupera dal già citato Supermanz anche la voglia di rompere gli schemi dilatando i silenzi e le pause. Tutto è avvolto da una sospensione irreale, tipica del sogno pronto a tramutarsi in incubo. La stessa scelta di non dare indicazioni topografiche circa i luoghi attraversati dai protagonisti, esacerba questo senso di alterità rivestita da realtà. Un espediente solo apparentemente banale che permette al regista di potenziare la propria causa, denunciando vizi e (poche) virtù della società italiana contemporanea. Sono le ambientazioni esangui e i personaggi trincerati in contesti di pallida apatia a tessere la continuità di un'opera che si rivolge all'assurdo per dialogare con il mondo extra-diegetico, fatto di rapporti sempre più superficiali e contesti anafettivi. Dal canto suo il pubblico sa che qualcosa di losco adombra ogni piccolo gesto dei Liviatani, ne è inconsciamente consapevole sin dall'inizio, ma Papa è bravo a non svelare immediatamente le proprie carte, giocando con le aspettative del pubblico. Il regista fa suo l'insegnamento hitchcockiano della suspense, dando vita a un labirinto in cui ogni via di uscita è persa e ogni parete, o siepe, è pronta a macchiarsi di sangue.
ESISTENZIALISMO E ALTRI SEGRETI
"Esistenzialista": così Orlando epiteta la famiglia che lo ha accolto. Ed esistenzialista è anche lo spettacolo messo in scena da Papa. Un po' brechtiano nei colori e nella performance attoriale, il regista immortala i propri personaggi come mastri burattinai, pronti a recidere le fila delle proprie creature a proprio piacimento. Ipostasi di una società adagiata sui fasti del passato e incapace di rialzarsi, avviluppata tra ipocrisie e apparenze, il microcosmo modellato da Papa è sorretto da una famiglia che si erige a nefaste divinità, decise a recidere il debole, l'inutile e il corrotto da peccati mortali. Ll regista non esclude nessuna possibile morale, ma lascia che sia lo spettatore, con una serie di provocazioni, a tentare di cercare continuamente nuove interpretazioni da attribuire all'agire di questa famiglia. Eppure, in questo meccanismo collaudato, qualcosa blocca gli ingranaggi. In questa montagna russa, la fase di salita è sempre troppo dilatata rispetto a quella di discesa. I momenti di stasi narrativa, così congeniali per scioccare il proprio pubblico con un nuovo punto di svolta, allentano lo scorrere della storia, con il rischio di perdere l'attenzione dello spettatore.
Tra pause e flashback non sempre indispensabili all'economia del racconto, vi sono momenti in cui il film è paragonabile all'autostrada A14. Scorre tranquillo per poi interrompersi di colpo e proseguire a rilento, in un'alternanza eterna tra accelerazione e decelerazione. Quello che potrebbe penalizzare a una lettura più superficiale la completa riuscita di un'opera come I Liviatani è il tenere nascosta non tanto l'identità della famiglia, quanto i moventi che si celano dietro il loro agire. Se i loro comportamenti sono dettati da una volontà di pulizia sociale, è un qualcosa che lo spettatore intuisce mano a mano che l'intreccio avanza, eppure non rendere visibile tali intuizioni, lasciandoli vagare nella sfera dell'interpretabile e del pensiero soggettivo, potrebbe impensierire qualche spettatore. A venirci incontro e toglierci ogni possibile dubbio, permettendoci di comprendere e apprezzare maggiormente il film, è il pensiero dello stesso regista: "Per i Liviatani compiere tali atti è un'azione assolutamente normale. È come andare a comprare il pane per cena. Il come, il quando è del tutto a discrezione del singolo individuo; è puro istinto animale, per quanto alla base ci sia una fede del tutto lucida e razionale, mossa da una visione del mondo e della società in cui i soggetti socialmente inutili non meritano di esistere. Loro fanno quello che fanno perché si tramanda da secoli e se sei un membro dei Liviatani, devi perseguire questo credo familiare. Questa è la motivazione. Anzi, vado ben oltre, questa è la fede. Nella realtà, ad esempio, in una famiglia cattolica si impartiscono educazione e dettami religiosi. I figli svolgeranno la prima comunione, la domenica andranno in chiesa, pregheranno, si sposeranno su un altare, faranno battezzare i propri figli e il ciclo riprenderà attraverso quest'ultimi. Per quale motivo lo fanno? Perché ci credono, non serve un motivo. Gli è stato insegnato così. Inoltre, dietro una fede così semplice c'è un forte senso di appartenenza a una comunità, alla propria famiglia. Lo stesso vale per i Liviatani, solo che loro non pregano! Se avessimo spostato l'attenzione su ipotetiche motivazioni personali, probabilmente sarebbe caduto il castello di suspence e il focus narrativo si sarebbe spostato dalla critica sociale a questioni più intime, rischiando di andare a giustificare i loro atti. In questo si sarebbe spersonalizzato il concetto portante che è alla base dei Liviatani: assorbire tutto ciò che possono, annullare tutto ciò che è diverso da loro. Smettere di stare all'apice della catena alimentare della società."
Una regia salda, ben costruita, un'attenzione maniacale ai dettagli e un costrutto estetico capace di edulcorare e smussare ogni punta di amarezza e insostenibilità ritmica narrativa: sono questi gli ingredienti chiave di un prodotto come I Liviatani. Il tutto enfatizzato da quell'esilarante vena satirica da black comedy atta a denunciare quel velo di perbenismo che investe sempre più la borghesia italiana con toni causticamente leggeri e ammiccanti a un puro gusto british.