Recensione M. Butterfly (1993)

Si fa pienamente comprensibile - e apprezzabile - che, per un film così diverso, eppure così organico al complesso della sua opera, Cronenberg abbia compiuto scelte stilistiche in qualche misura inopinate, rispetto a quelle che eravamo soliti ammirare.

I deliri esotici di René Gallimard

L'arrocco da cui prendono avvio (quasi) tutte le partite a scacchi di David Cronenberg (leggasi: i suoi film), e quindi anche M. Butterfly, è la rappresentazione della cordiale impudenza, o cieca sfrontatezza, con cui il protagonista affronta l'esistenza. Convinto e sicuro di sé, risoluto nell'affermare la veridicità della propria percezione del mondo e tenace nel voler investire quel mondo delle azioni ritenute appropriate a lasciare un segno, l'uomo di Cronenberg entra in scena e lancia la sfida. E il terreno di confronto - in questo cimento il cui oppositore, talvolta e per paradosso, è l'indole non del tutto conosciuta del personaggio stesso o, più spesso, un'entità concettuale e sovraindividuale identificabile nella scienza, nei mass media, in una cultura altra o nella morale comune - è la realtà, intesa come complesso spazio-temporale che ingloba il e il fuori da sé, rispetto alla quale, appunto, si erge l'eroe; sempre configurato, in Cronenberg, come una sorta di doppia volontà di potenza, in primo luogo volta ad affermare la giustezza dei criteri di conoscenza utilizzati dal sé-personaggio percipiente e, di seguito, tesa a flettere la realtà stessa al volere, di solito non troppo ordinario, del sé-personaggio agente. Ne scaturisce una übris moderna, concentrata attorno all'asserzione titanica della verità delle conoscenze e del potere delle azioni (übris è vocabolo della tragedia greca antica che, con un po' di libertà, si può tradurre nella parafrasi 'oltraggio all'ordine naturale delle cose').

In M. Butterfly, il dispositivo narrativo di partenza è il medesimo, anche se abbozzato un po' più in sordina rispetto ad altri atti di übris di cui si erano macchiati in passato o si macchieranno in futuro altri eroi cronenberghiani. In M. Butterfly la übris è ancora presente - e come potrebbe essere altrimenti? -, anche se sussurrata, quasi cantata da un coro a bocca chiusa, in ossequio ad una logica di messa in scena per una volta meno sensazionale e stupefacente e più ordinaria e quotidiana: insomma, dentro un nuovo ambito di discorso in cui il pensiero horror - a far coppia con Inseparabili, film di cinque anni prima - si declina non più sulla visibilità delle mutazioni e sugli effetti speciali ma, piuttosto, sul radicale senso di vertigine conferito dalle deviazioni distorte cui va incontro il concetto di integrità personale - in altri termini: il principio d'identità -. Ed è quest'ultimo, in M. Butterfly, la cosa che si frantuma in pezzi dentro mille rivoli cangianti, secondo nuove modalità di racconto e rappresentazione grazie alle quali l'horror giunge a fecondare il dramma e - addirittura - il melodramma, e conferisce loro quel senso del nuovo e del non sondato che, da sempre, è il tratto suo più caratteristico.

La übris di René Gallimard - protagonista di M. Butterfly interpretato da un ottimo Jeremy Irons- è qualcosa che va addirittura al di là di una ribellione alla scienza o all'etica comune: è, piuttosto, una sfida totale, che, dietro la dichiarata volontà di conoscenza che sembra muovere il personaggio, lo conduce a scontrarsi con tutto il conosciuto al punto da averne annientata l'identità personale. Gallimard si trova nella Pechino del 1964; è un borghese di Francia dalle salde certezze e dall'evidente benessere, economico e sentimentale, richiamato in Cina dall'ambasciata transalpina a scoprire gli sperperi di denaro perpetrati dai colleghi diplomatici.
Appena arrivato, Gallimard, all'apparenza timido burocrate, si lancia, senza la premura di assicurarsi vie di salvezza, nelle due opere di escavazione che sono, al contempo, la sua übris e la ragione della sua futura e inevitabile caduta.

Da un lato, senza godere della protezione quasi ultraterrena - perché proveniente da sensi di colpa collettivi - di cui sono beneficiari gli eroi di tanta narrativa popolare ultrasecolare, Gallimard si scontra a muso duro con il suo mondo - quello dell'ambasciata -. Nell'ansia di svolgere al meglio il compito di ispettore contabile, indaga sugli abusi di potere e ne viene a conoscenza, al punto che, dentro la parabola della sua vita, e al culmine più alto, un giorno gli viene assegnata la carica di viceconsole, che userà, da quel momento, per dimostrare di aver capito tutto, in riferimento alla realtà, anche diplomatica e politica, che lo circonda, lasciandosi andare a previsioni geopolitiche - sull'atteggiamento dei vietnamiti nei confronti degli americani o dei cinesi rispetto a Ho Chi Min - che l'ambasciata prenderà in grande considerazione ma che gli si rivolgeranno contro nell'attimo stesso in cui si manifesterà una realtà completamente diversa da quella immaginata. Risulta evidente il peccato: un semplice computista commuta se stesso in fine stratega, scambiando le proprie impressioni e allucinazioni politiche per verità che non potranno che rivelarsi false, perché provenienti da una visione blanda e, di fatto, da romanzo d'appendice o da melodramma, dei rapporti tra Oriente e Occidente. La rivoluzione culturale delle guardie rosse, nel '68, spazzerà via l'identità del politico Gallimard, che tornerà a Parigi, senza più sicurezze e punti di riferimento, a far null'altro se non il corriere diplomatico, travolto dal vento della Storia.

D'altro canto - ed è su quest'altra faccia del plot che il film concentra il massimo della sua espressività poetica -, Gallimard, in Cina, compie l'atto di presunzione assoluta e senza ritorno: vuole conoscere e fare propria, con quegli occhi da occidentale imbevuto di leggende, il mondo altro, la Cina destinata a rimanere mistero. Ed è questa la übris che muta il dramma in tragedia. Con una preconoscenza dell'Oriente che, come detto, è nulla più che cliché tradizionale, Gallimard affonda se stesso nel desiderio presuntuoso di riuscire a esplorare fin dentro le pieghe la Cina millenaria; in questo viaggio, segnato da una perversa circolarità per cui le conoscenze nuove non saranno null'altro se non la conferma tautologica di un sapere vecchio e fasullo - la Cina conosciuta da Gallimard sarà fotocopia della Cina immaginata -, gli sarà compagno d'avventura la cantante d'opera Song Liling - interpretata da uno splendido John Lone -, che, poi, in un processo di crudele agnizione, esperita prima dallo spettatore e poi da Gallimard, si rivelerà essere uomo al soldo dei servizi segreti cinesi. Nel frattempo, però, tra René e Song Liling, nella concitazione che muove il diplomatico francese ad accogliere in sé il senso della Cina antica e moderna per farsene quasi liberatore, matura un sentimento d'amore - tra uomo e uomo che si finge donna - che non può essere definito se non come una delle versioni contemporanee di quell'amour fou _tanto amato dai surrealisti e dalla cultura occidentale d'inizio secolo, e di cui, guarda caso, la _Madama Butterfly di Giacomo Puccini - opera/specchio attorno cui ruota il film di Cronenberg - fu mirabile divulgazione. Annegato dentro questo sentimento idealizzato e cieco, eppur talmente vero da essere percepito come il più autentico di tutta una vita, Gallimard perde progressivamente spessore di persona, diventa simulacro di una realtà irreale e immaginata e si fa protagonista di un incubo in cui si materializzano atti sessuali inspiegabili, gravidanze inconcepibili e convivenze illogiche. A livello più superficiale, René diventa funzione di un complotto che lo pone, alla fine del film, ai margini di ogni realtà conosciuta, chiuso dentro una prigione ove l'unico senso è l'annullamento e il suicidio. Ma Gallimard non si uccide per disonore o vergogna; piuttosto, per aver perso, in maniera definitiva, il senso della propria identità e, in particolar modo, quello di un'identità fantasmatica e desiderante. Nell'ultima terribile sequenza - quella del suicidio, appunto -, un René quasi in trance, tra i trucchi e le maschere convenzionali di un'Oriente da cartolina, si ritrova ai piedi di un sogno farneticante, tra le pieghe di un gioco di perenni deviazioni d'identità, oramai inconscie ma cercate, paranoiche eppure consapevoli. Il suicidio finale di Gallimard nel teatro della prigione chiude, in modo simmetrico, un percorso di disfacimento che aveva avuto inizio, in apertura di film, tra le frescure di un teatro all'aperto improvvisato dall'ambasciata svedese o nel calore morboso del Teatro dell'Opera di Pechino, quando un René supponente si era avvicinato alla realtà cinese per avere, in fin dei conti, nulla più che conferma ai sogni patinati di un nuovo mondo _ove curare - anestetizzandole - le proprie frustrazioni; eppure, analizzando per paradossi, si può ben dire che, alla fine della pellicola, l'unica verità che ci rimane impressa è costituita, nel _tourbillon delle finzioni, dalle parole d'amore che Gallimard ha regalato a Butterfly/John Lone e, di converso, dalle parole che la stessa Butterfly ha donato a Gallimard, nel vincolo d'una menzogna d'identità al cui interno anche l'omosessuale cinese ha trovato - attimo unico di una vita intera - piena espressione di un sé immaginario.

Alla luce di quanto detto, si fa pienamente comprensibile - e apprezzabile - che, per un film così diverso, eppure così organico al complesso della sua opera, Cronenberg abbia compiuto scelte stilistiche in qualche misura inopinate, rispetto a quelle che eravamo soliti ammirare. Qui non c'è attenzione alla carne e alle sue mutazioni ma, per converso, un insistere della macchina da presa sui primi piani e sugli sguardi, rivelatori degli infiniti cambiamenti che solcano le anime; l'occhio meccanico spesso si muove in modo impercettibile, o con lunghe estenuanti panoramiche, a segnare il ritmo lento ma rigoroso del degrado del personaggio, laddove le inquadrature cronenberghiane ci avevano abituato allo scatto e all'imprevedibilità; e il montaggio è analitico e quasi inafferrabile, rannicchiato attorno ai campi e ai controcampi dei personaggi, diversamente dallo stile più di genere, ove, a ogni taglio, corrispondeva una sorpresa; e i colori sono quelli del delirio, in apparenza buono e rassicurante, di René Gallimard, il rosso porpora e il giallo ocra, laddove Cronenberg, invece, è solito usare la glacialità della fotografia per distanziarci, in qualche modo, dalle aberrazioni dei suoi personaggi.