Ripensando oggi a quel capolavoro seriale che era - ed è - House of Cards, tornano alla memoria diversi punti, ancora impressi nella memoria. La sigla, con la musica enfatica e profonda di Jeff Beal, mentre sotto scorrevano le immagini con gli angoli di Washington, quasi la stessimo spiando di nascosto. Una intro ovviamente oscura, in linea con i toni di quella che si può ancora considerare una serie rivoluzionaria. Poi, ci tornano in mente le costolette di Freddy, divorate da Frank Underwood come fosse un lupo famelico, rintanato in una tana che solo lui conosceva, lontana dagli intrighi di coorte e dagli affari di Stato. Lì, tra lo sguardo mite di Freddy e l'odore appiccicoso di grasso colante, il Senatore Frank era se stesso, e dunque vulnerabile: cravatta sbottonata, piani demoniaci e orgoglio sudista.
E ricordiamo l'eleganza glaciale di Claire Underwood alias Robin Wright, quella #FLOTUS divenuta poi Vice e a sua volta #POTUS, tenendo il pugno della situazione, senza indietreggiare mai rispetto all'ombra lunga del marito. Anzi. Ma tra tutto, ricordiamo in modo vivido il rintocco dell'anello di Frank, sbattuto - in segno di trionfo - sulla Resolute Desk dello Studio Ovale, al termine della seconda stagione (era il Capitolo 26), appena divenuto 46° Presidente degli Stati Uniti d'America. Quattro momenti diversi, e un'eredità che anno dopo anno si è fatta ancora più corposa e forse complessa. I motivi legali, che ruotano attorno al protagonista nonché produttore esecutivo Kevin Spacey li conosciamo, ma al netto della cronaca, è sacrosanto ricordare House of Cards per essere stata la serie spartiacque per antonomasia, quella che ha spalancato gli orizzonti di una Golden Age tv equiparabile ai tripudi hollywoodiani degli Anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta.
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House of Cards e la Golden Age delle serie tv
Esiste una serialità pre e post Frank J. Underwood, ed esiste anche un cinema successivo e precedente alla serie concepita da Beau Willimon e liberamente basata sul romanzo di Michael Dobbs. House of Cards, che irruppe su Netflix il 1° febbraio 2013 (in Italia arrivò tardissimo, un anno dopo, grazie a Sky Atlantic), fece immediatamente capitolare il pubblico, gli addetti ai lavori, le produzioni e, addirittura, Barack Obama che, a più riprese, ammise di seguire la serie con enfasi, rimarcando il discutibile pragmatismo del Senatore Underwood. Disse, "Questo tizio riesce a ottenere un sacco di risultati". Come dargli torto? Del resto, House of Cards scatenò un terremoto mediatico incredibile per la sua precisione enfatizzata a riguardo delle dinamiche relative al potere, oltre all'eversiva modalità distributiva: via streaming, subito disponibile, una stagione alla volta. Novità assoluta. Impossibile tornare indietro. House of Cards era il futuro appena arrivato.
Un punto di non ritorno, il giro di boa che avrebbe annichilito il cinema per come lo conoscevamo. Una (ex) grande star di Hollywood come Kevin Spacey in uno show politico e antropologico, dai tratti ossessivi e dal linguaggio sommessamente adrenalinico, mentre i riflessi thriller si mischiavano ad un pizzico di irresistibili ammiccamenti alle soap-opera. Inconcepibile fino al 2012, intanto che il grande schermo stava vivendo le sua apoteosi, tra Avatar e The Avengers. In mezzo, gli aspetti più pruriginosi di un'epopea illuminista e perversa, che anticipò i tempi di una restaurazione produttiva.
"Lo streaming è il futuro. Tutto cambierà e la televisione non sarà più televisione tra cinque anni... tutto sarà in streaming", anticipò lo sceneggiatore Beau Willimon, intanto che montava la curiosità morbosa nei confronti di quell'uomo che, come Napoleone, si fece Re sporcandosi le mani di sangue e di salsa barbecue. Intorno a lui, Washington, l'America progressista e il parametro del potere che acquisiva risvolti decisamente inquietanti. Lasciando di stucco il pubblico, testualmente calato all'interno di una Casa Bianca (una ricostruzione minuziosa, tanto che si poteva sentire l'odore della moquette) che Capitolo dopo Capitolo, somigliava sempre di più ad una casa degli orrori.
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"Noi non subiamo il terrore, noi creiamo il terrore"
Una struttura d'impatto, una messa in scena elegante e turgida che trattiene volutamente le emozioni per poi liberarle un poco alla volta, parallelamente alle svolte di una sceneggiatura che puntava dritta al cuore degli Stati Uniti d'America. Una serie riottosa capace di prendersi gioco della politica e delle convenzioni, mistificando il carrozzone gracchiante che accompagna il circuito chiuso delle Presidenziali americane. Ma il livello si stava alzando e il terrore iniziò a serpeggiare: quanto sarebbe stata efficace la visione via streaming? Davvero si sarebbe sostituita alla tv tradizionale? Davvero avrebbe soppiantato il grande schermo?
Forse, la distribuzione seriale via streaming si impose proprio grazie alla malvagità affascinante di Frank e di Claire, immersi nel loro piano di onnipotenza divina più che politica. Ecco, il terrore. Se House of Cards vidimò il trattato distributivo e narrativo ormai contemporaneo, prendendosi il tempo per arrotare i personaggi (Claire, su tutti), facendo sì che entrassero nell'immaginario del pubblico. Una miticizzazione, una polarizzazione del pensiero politico (Democratico quanto Repubblicano) basato, appunto, sulla paura che diventa strumento di coercizione nei confronti di quella democrazia "sopravvalutata", e dunque nei confronti del popolo tenuto costantemente sul filo del rasoio.
Uno strumento che annulla il pensiero critico e distrugge la propensione naturale che si dovrebbe avere nei confronti del futuro. L'audacia della speranza terminata al termine del doppio mandato di Barack Obama si è esaurita, e dal 2016 l'Occidente e i suoi valori sono stati irrimediabilmente (?) alterati. "Noi non subiamo il terrore, noi creiamo il terrore", dice un mefistofelico Frank Underwood, al fianco di una polare Claire, guardandoci in faccia, al termine della quarta stagione. Una promessa che oggi assume un altro significato: Frank Underwood ha vinto e House of Cards aveva predetto il futuro. E no, non solo quello televisivo.
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