Di film che raccontano di case stregate ce ne sono a decine, se non forse a centinaia, nella storia del cinema horror. Case in cui atti di violenza terribile diventano come macchie indelebili che imbrattano i muri di un edificio e si trasformano in spiriti prigionieri che perseguitano i nuovi inquilini. Come scopriremo in questa recensione di His House, non sempre queste entità si attaccano ai luoghi, agli edifici, ma in certi casi anche alle persone, e in questo film di Remi Weekes (al suo debutto alla regia) distribuito su Netflix esploriamo nel miglior modo possibile questa possibilità. E impariamo anche un'altra cosa: anche l'abusatissimo tema della hounted house può essere ribaltato e attualizzato in maniera nuova e originale.
Che l'horror possa essere uno strumento perfetto per regalarci importanti spunti di riflessione ce lo ha insegnato Jordan Peele, semplicemente per citarne uno dei più recenti, ma anche tanti altri cineasti che di questo genere hanno fatto un mezzo espressivo per parlare degli argomenti più vari, andando al di là del semplice spavento fine a se stesso. His House è uno di quei film che ci resta appiccicato anche al termine dei titoli di coda, un film che ci parla di senso di colpa, di paura di perdere le proprie radici, dell'essere completamente disorientati nell'affrontare una nuova vita e della difficoltà di superare i propri traumi. E, seppur trovandoci ben lontani dalla realtà vissuta dai due protagonisti di questa storia, noi spettatori non possiamo che non sentirci toccati nel profondo da ciò che gli accade, empatizzando senza sforzo con il loro dolore.
Una storia di rimorso e senso di colpa
La storia si apre nel Sudan del Sud, Bol Majur (Ṣọpẹ́ Dìrísù) e sua moglie Rial (Wunmi Mosaku), stanno fuggendo da una sanguinosa guerra civile insieme alla figlia Nyagak (Malaika Wakoli-Abigaba). Durante la traversata, la piccola si perde in mare e non riesce ad essere salvata, e i due si ritrovano in un centro profughi del Regno Unito, soli nel fare i conti con il senso di colpa per non averla salvata e con il dolore per la sua perdita. Spostati dal centro ad una casa fatiscente destinata a persone nella loro condizione - ossia senza status, di "non ancora cittadini" - Bol e Rial si trovano costretti a seguire un numero infinito di regole per adattarsi alla loro nuova vita, cercando di apparire sempre perfetti ed a loro agio agli occhi degli assistenti sociali, in vista di cambiamenti in meglio che il futuro potrebbe portare.
Le cose non sono però così semplici: qualcosa li ha seguiti dal Sudan, dal mare in tempesta in cui hanno perso la loro bambina, ed ora presenta un salatissimo conto da pagare. In fin dei conti loro si sono salvati e molti altri, come la piccola Nyagak, sono stati inghiottiti dalle onde o uccisi dai proiettili. La maledizione che si sono portati dietro ha un nome, sia chiama Apeth, un'entità della notte, una strega, che si nutre delle loro anime e del loro senso di colpa. Ed insieme alla terribile creatura la casa comincia a popolarsi degli spiriti di tutti coloro che non ce l'hanno fatta, spettri che non hanno alcun timore di farsi vedere e cominciano a perseguitare la coppia.
Se Bol vorrebbe adattarsi in pieno alla sua nuova vita, seguire il modello che è stato tracciato per lui, Rial invece non riesce a lasciarsi alle spalle il passato e, ovviamente, la figlia che ha perso. Ciò che più ci ha colpito del film è proprio il modo in cui si sceglie di narrare il diverso modo che marito e moglie hanno di affrontare l'arrivo in un paese straniero, così diverso da tutto ciò a cui sono abituati: Bol vorrebbe mangiare seduto a tavola usando le posate, Rial si confeziona abiti tradizionali con le lenzuola. Ma se fuori casa lei è quella che si perde nel labirinto di strade e di case sempre più anonime e grigie (mentre lui si ritrova, entusiasta, a cantare inni calcistici in un pub del quartiere), tra le mura in rovina la donna cerca quasi il contatto con quegli spiriti che sono l'unico ricordo di quello che entrambi hanno perso.
Il terrore li segue sia dentro casa, nascosto e strisciante nelle pareti, che fuori, dove nessuno sembra disposto ad accettarli e ad accoglierli, mostrandoci quanto l'ostilità nei confronti dei migranti (anche da parte di chi condivide il loro stesso colore di pelle) possa essere tristemente reale. La matassa di dolorose emozioni e di paure provate dai protagonisti si cristallizza nelle pallide figure degli spettri che popolano la loro casa ma sopratutto nell'Apeth, figura mostruosa interpretata da Javier Botet, attore reso famoso proprio per le terrificanti creature a cui da vita sullo schermo grazie ai suoi arti estremamente lunghi e alla sua incredibile gestualità (lo ricordiamo ad esempio in It, La madre e Crimson Peak).
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Persone o case infestate?
Se le interpretazioni di Ṣọpẹ́ Dìrísù e Wunmi Mosaku (che abbiamo visto recentemente in Gangs of London e Lovecraft Country) sono talmente convincenti da trasportarci nel film e nella vicenda che stanno - loro malgrado - vivendo, alcune scelte di regia (coadiuvate dalla splendida fotografia di Jo Willems) rendono His House uno dei film più particolari, e sopratutto meglio riusciti, che abbiamo visto di recente. Remi Weekes, basandosi sulla soggetto di Felicity Evans e Toby Venables, è riuscito raccontare nel modo migliore possibile quanto senso di colpa e sradicamento - coatto - dalle proprie radici possano trasformarsi con il passare del tempo in qualcosa di davvero mostruoso, con cui prima o poi saremo costretti a fare i conti. Non sono le case ad essere stregate nel film di Weekes, ma le persone che le abitano.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di His House, l'horror Netflix diretto da Remi Weekes, sottolineando quanto questo film ci abbia profondamente colpito: il regista riesce a raccontare, in maniera assolutamente originale, come il senso di colpa e lo sradicamento coatto dalle proprie radici sia capace di trasformarsi in qualcosa di davvero mostruoso. Ottime le interpretazioni di Ṣọpẹ́ Dìrísù e Wunmi Mosaku.
Perché ci piace
- Le interpretazioni di Ṣọpẹ́ Dìrísù e Wunmi Mosaku.
- La trama assolutamente originale e particolare.
- Le scelte registiche di Remi Weekes e la splendida fotografia di Jo Willems.
- L'atmosfera tremendamente angosciante che permea il film.
Cosa non va
- Non tutti apprezzeranno un horror con così pochi jump scares.