Iniziare bene, finire male. Davvero, che grande amarezza. Ci credevamo, fin dal trailer, esplosivo e coinvolgente. E ci credevamo dalle prime sequenze. Sporche, granulose, a metà tra il poliziottesco, l'hard-boiled, il neo-noir. Speravamo e pensavamo che Havoc di Gareth Evans, anche grazie alla presenza di un attore strepitoso come Tom Hardy, potesse essere un punto a favore segnato da Netflix.

E invece? Invece, con il progressivo dipanarsi della narrazione, quella potenza iniziale sembra inesorabilmente svanire, impigliandosi in un racconto che procede a strappi, come un giro di giostra, finendo per disperdere la fragile attenzione di quegli spettatori indecisi che scorrono il catalogo streaming alla ricerca di qualcosa che catturi veramente il loro interesse.
Havoc: il fattore Tom Hardy
Ciò che rende interessante Havoc, almeno teoricamente, è la revisione sgualcita e disillusa del più classico detective della omicidi. Il protagonista è infatti l'ispettore Gareth Evans, un ruolo tagliato alla perfezione per le corde di Tom Hardy, che ha lavorato sul look, efficace nel tradurre la personalità del personaggio. Evans non se la passa benissimo, soprattutto perché arriva da un caso finito male.

Il panorama urbano, che dovrebbe essere la tentacolare Los Angeles, filtrata attraverso una lente stilistica che ricorda l'estetica vivida e contrastata delle graphic novel (risultando quindi una sorta di panorama americano iconografico e rappresentativo), un po' per volta finirà per indirizzare il percorso del protagonista: calandosi nel sottobosco della criminalità locale, con lo scopo di salvare il figlio del candidato sindaco (Forest Whitaker), scoperchierà il solito intreccio lastricato da intrighi e corruzioni.
Un neo-noir che sfuma gli ottimi presupposti

Andando in ordine, funziona l'estetica a grana grossa, esaltata dai colori notturni della fotografia di Matt Flannery. Una temperatura perfetta per essere declinata nell'action e nel noir, appoggiandosi alla rivisitazione dei grandi titoli di genere a cominciare dai romanzi di Raymond Chandler. Funziona il background del protagonista, il suo andamento livido, la sua presenza scenica, enfatizzata dal talento di Tom Hardy. Anche perché, quando l'attore inglese non è in scena, Havoc sembra perdere di mordente, sfilacciandosi in una trama incredibilmente arzigogolata, digressiva, e in costante ricerca dell'effetto.

Una teoria tecnicamente affascinante, ma poco bilanciata in quelle svolte impigrite da una struttura ragionata nell'ottica di un genere (notevolmente cinematografico) che soffre la schematicità di una sceneggiatura tracciata secondo le logiche streaming. Dall'altra parte, la delusione - se così possiamo definirla - si lega al panorama produttivo odierno, incastrato in operazioni concettualmente simili l'una con l'altra.
In fondo, il nodo cruciale è proprio questo, esplicitato fin troppo chiaramente dal film di Evans: l'urgenza di catturare immediatamente l'attenzione del pubblico, per poi inspiegabilmente allentare la presa, seguendo un tracciato narrativo inutilmente complesso, farraginoso e spesso privo di una reale progressione. Non solo, riempito da una svolta finale sanguinolenta decisamente fine a sé stessa, e fuori contesto. Il tutto, tra l'altro, ragionato seguendo la possibile saga. Peccato, i crismi, almeno all'inizio, erano tutti al posto giusto.
Conclusioni
Nonostante un inizio promettente con atmosfere poliziottesche e un Tom Hardy convincente nel ruolo di un detective disilluso, il meglio di Havoc si perde dietro l'estetica notturna, dissipando il mordente quando l'attore non è in scena, e sfilacciandosi in una trama fumosa. Una delusione, viste le premesse.
Perché ci piace
- Tom Hardy.
- L'estetica.
- I presupposti.
Cosa non va
- La trama spesso fumosa.
- Troppi intrecci, poca sostanza.
- Il ritmo spesso si inclina.