L'"esilio" ad Hammamet, le visite di amici e vecchi rivali, i piatti di pasta consumati in barba alla malattia che avanzava, il desiderio di difendersi fino alla fine, la convinzione cocciuta di stare nel giusto: nel film di Gianni Amelio, del Bettino Craxi uomo politico rimane ben poco, Hammamet ci restituisce invece la dimensione più intima e privata del leader del Psi, negli ultimi mesi di vita durante l'esilio tunisino.
A sentir parlare il regista, l'idea di un film su Craxi arrivò quasi per gioco: "Ero con i produttori de La tenerezza. Agostino Saccà voleva fare un film su Cavour e sul suo rapporto con la figlia, ma a quel punto, mi scatta la lampadina: 'Perché non parlare di Craxi e di sua figlia?'. Rimase in silenzio, l'avevo buttata lì per liberarmi di Cavour, e poi mi prese sul serio".
L'agonia del potere
L'urgenza che ha spinto Gianni Amelio a girare Hammamet è una sola: "Considero Craxi un politico sul quale da decenni è calato un silenzio ingiusto e assordante", precisa il regista durante la presentazione del film alla stampa. Non è un caso che la storia, salvo un breve prologo inziale che lo ritrae all'apice della sua ascesa durante il 45° Congresso Socialista, si concentri sugli ultimi mesi del leader politico del Psi, durante l'esilio a Hammamet dove si era rifugiato dal 1994 dopo essere stato condannato per corruzione e finanziamento illecito al partito. "Non è un film sulla superstar degli anni '80, ma sul Craxi della fine del secolo scorso. È il racconto della lunga agonia di un uomo che ha perso il potere e va verso la morte". L'atmosfera è crepuscolare e decadente, l'ormai ex leader del Psi arranca tra la malattia, i rimorsi, l'orgoglio ferito: "Il passato ritorna anche nell'eremo tra gli ulivi e le colline di Hammamet, dove il Presidente coltiva rimpianti, rimorsi, desideri e rancori. È un uomo macerato fino all'autodistruzione".
Hammamet, la recensione: il Craxi crepuscolare e decadente di Amelio
Craxi, esule o latitante?
Un ritratto in cui Amelio non vuole cedere all'idea dello statista come un esule o un latitante: "Non è né l'uno né l'altro, - spiega - latitante è colui che viene cercato dalla legge e non si sa dove si trovi, di un latitante non si conosce il domicilio, di Craxi tutti conoscevano persino il numero telefono, c'erano giornalisti che lo intervistavano e amici che andavano a trovarlo. Non parlerei neanche di esilio, piuttosto di 'contumacia'; i giudici non sono mai andati da lui perché se avessero celebrato il processo in Tunisia sarebbe stato solamente inutile. Ci si aspettava solo che lui si presentasse davanti ai giudici, come gli consiglia nel film l'amico democristiano. L'orgoglio e la presunzione di esser nel giusto è una delle cose per cui Craxi ha perso, la sua ostinazione a credere che dovesse essere giudicato in parlamento e non in tribunale ha fatto sì che facesse quella fine. Il film pone domande, la questione è ancora aperta".
Non è un film contro Mani Pulite
Hammamet è fatto con il cuore ed è un film rigorosamente senza nomi, Craxi è semplicemente "il Presidente": "Li ho aboliti perché quelle persone si conoscono fino troppo bene. Non amo chiamare per nome i personaggi dei miei film, mi piace il dialogo netto e pulito, che va al sodo. Ho il diritto di chiamarli come mi pare, per esempio ho dato alla figlia il nome di Anita come Anita Garibaldi, era un modo per parlare di una figura storica che il presidente venerava. Ho dato al personaggio qualcosa di più del nome di battesimo. I nomi sono ovvi e non volevo fare una cronaca, ma sollevare lo sguardo un po' più in alto".
Ma ci tiene soprattutto a dire che non è un processo contro Mani Pulite: "Quando parla Craxi passo dal 16:9 al formato in 4:3, come se stessi virgolettando il suo discorso. Racconto una storia e la rappresento, non sono il personaggio, era inevitabile che il suo conflitto con i giudici venisse fuori, e avrei commesso un falso storico se gli avessi fatto cambiare tono. Nel film non si insulta nessuno e non esprime un giudizio su Mani Pulite".
Il rapporto con la famiglia di Craxi
Il rapporto con la famiglia? Amelio ci è entrato in punta di piedi. Ha voluto conoscere per prima Anna, la moglie: "Ci siamo intesi subito. È una cinefila, appassionata dei western di Antony Mann, così, invece di parlare di politica, abbiamo finito per parlare di cinema", racconta. Poi è stata la volta di Stefania Craxi, molto impegnata "affinché il nome del padre non sia sepolto e dimenticato. Bobo l'ho incontrato di meno, ma scrive e si fa intervistare molto, paradossalmente conosco meglio lui che la madre o la sorella".
Pierfrancesco Favino: essere Craxi
"Che Dio benedica Favino!", scherza quando arriva il momento di parlare dell'interpretazione di Pierfrancesco Favino, che ha dato a Craxi la statura umana e decadente del leader solo e ormai sul viale del tramonto. Una performance che si è avvalsa di quasi cinque ore e mezza di make up quotidiano: "Ci siamo serviti del trucco, ma lo abbiamo anche combattuto, perché se non alimentato da qualcosa che viene da dentro, il make up può diventare una trappola", commenta l'attore che ancora una volta dà l'ennesima prova di un talento camaleontico.
"Abbiamo lavorato perché il trucco fosse la chiave, - continua - perché ci si potesse dimenticare del trucco. Dopo cinque ore di make up quotidiane eravamo arrivati a un rituale, quello delle sopracciglia e degli occhiali. Quando li indossavo era arrivato il momento in cui, come nel teatro giapponese, si attraversa il ponte verso l'oblio di sé. Si apriva una porta verso qualcosa che altrimenti avrei avuto paura di toccare. La maschera è spesso ciò che ti consente un contatto con qualcosa di molto più intimo".
Per diventare Craxi, Favino ha inoltre passato in rassegna centinaia di video, alcuni suggeriti da Amelio, "altri cercati da me. E non solo del periodo in cui lo raccontiamo, ma anche di quello precedente, perché mi interessava vedere come era prima e come fosse cambiato nel tono della voce e nell'appesantimento fisico. Vederlo prima marciare come un soldato e poi zoppicare davanti la casa di Hammamet, era già di per sé un racconto". Cosa gli ha lasciato? Sicuramente la sensazione che "stessimo toccando la fine di una generazione di uomini come mio padre e come Craxi, che con la propria intimità avevano un rapporto molto complesso: gli era stato insegnato che mostrare la propria emotività ai figli era sintomo di debolezza. Quella leadership, non solo familiare perché Craxi aveva anche un forte senso di paternità verso l'Italia, ti lascia da solo. Ho empatizzato molto con quella emozione e con tantissimi aspetti dell'umanità difficile di quell'uomo, non era mio compito mio giudicarlo".
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