Sono passati soltanto quattro anni da quella prima stagione di House of Cards che, lanciata nel 2013, fu la prima serie originale Netflix; eppure sembrano molti, molti di più. Perché nel frattempo il colosso dei servizi streaming ha lavorato costantemente per fare sì che la sua proposta anche in termini di contenuti proprietari fosse all'altezza non tanto dei diretti concorrenti (che, per il momento, rimangono anni luce indietro) ma anche degli altri canali televisivi, a pagamento e non, come per esempio HBO o AMC.
Che ci sia riuscita o no, e non è certo questa la sede più indicata per discuterne, senza alcun dubbio possiamo dire che il catalogo originale Netflix non è solo molto ampio e dalla qualità media decisamente elevata, ma ha anche il grande pregio di avere grande varietà: commedie e sitcom, fantascienza e horror, drammi storici, cinecomic e perfino musical; ed in più un paio di serie di culto come The OA o Sense8 difficilmente classificabili. Quello che forse sono mancati finora sono dei drammi veri e propri, ovvero serie non di genere in cui anche gli adulti possano identificarsi maggiormente rispetto, per esempio, ad una Tredici.
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Se parliamo in questi termini della nuova serie Gypsy nonostante venga pubblicizzato come thriller psicologico è perché - almeno per quanto abbiamo potuto vedere dai primi cinque episodi che abbiamo potuto vedere in anteprima - l'aspetto più accattivante in termini di intreccio è certamente condensato nella seconda parte della stagione, così come un (eventuale) sviluppo pseudo erotico che nei primi episodi, nonostante alla regia figuri la Sam Taylor-Johnson di Cinquanta sfumature di grigio, è assolutamente secondario e molto poco esplicito.
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She was just a wish
Per capire invece cosa sia realmente questo Gypsy bisogna partire dalla canzone dei Fleetwood Mac che dà il titolo alla serie e che, in una cover della stessa Stevie Nicks, è presente nei titoli di testa. Sebbene la stessa cantante non abbia mai voluto svelare troppo sul significato di questa canzone a cui tiene particolarmente, è chiaro che parli di rimpianti e nostalgia di un passato che tornerà mai, di una versione di se stessa che non c'è più ma che, in qualche modo, è comunque ancora presente in lei. Nel caso della Nicks si riferisce ad un passato antecedente al successo e alla carriera discografica, ad un tempo più spensierato e selvaggio. Nel caso della protagonista della serie, interpretata da Naomi Watts... ancora non lo sappiamo, ma è evidente che c'è qualcosa dentro di lei, imprigionato da troppo tempo e che sta cercando in tutti i modi di liberarsi.
Gli specchi sono un elemento importante di questa serie, lo vediamo fin dalla sigla, e ogni volta che la protagonista si osserva, noi insieme a lei cerchiamo di capire chi sia veramente questa donna, quale siano i suoi desideri e i suoi bisogni. Perché la Jean Holloway che conosciamo fin dal primo episodio - la psicologa, la madre e le moglie - è solo una facciata. Anzi, è solo una menzogna che in qualche modo non vede l'ora che venga svelata, ed è per questo che ogni azione che compie, ogni nuovo segreto che accumula, finisce sempre col portarla sempre più vicina ad una sorta di vortice autodistruttivo che potrà finalmente liberarla e svelare/svelarci il suo vero essere.
Quali sono i segreti della bella Jean? Non li conosciamo ancora tutti, appunto. Anzi dopo cinque episodi possiamo dire che del suo passato sappiamo poco o nulla, se non che in qualche modo la sua natura così tranquilla, controllata e razionale sembra essere una novità piuttosto recente e che il suo rapporto con la madre è a dir poco difficile. Quello che sappiamo però, anzi che osserviamo da vicino, è il suo rapporto con i pazienti: in apparenza Jean è un'analista attenta e premurosa, forse un po' frustrata dal non riuscire a volte a risolvere tutti i problemi attraverso la terapia, ma comunque una professionista. In realtà però ha un legame morboso - e molto difficile da accettare, anche solo per noi spettatori - con alcuni dei suoi pazienti: rintraccia le persone di cui loro le raccontano in modo confidenziale (ex fidanzate, figlie lontane) e intreccia con loro delle relazioni, tacendo ovviamente della sue vera identità. Attraverso questi incontri proibiti e così pericolosi per la sua carriera, Jean/Diane ritrova il piacere di vivere, riprova sensazioni che credeva forse perdute. E così facendo mette in discussione la sua intera vita e la propria identità.
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It all comes down to you
Simbolo di una società in crisi di identità, il personaggio interpretato dalla Watts è di fatto tutto ciò che funziona nella nuova serie Netflix: l'attrice è perfetta nel rendere l'ambiguità del suo personaggio e a trasformarsi, anzi ad accendersi nel momento in cui smette di essere se stessa e diventa invece più sexy, misteriosa ma anche evanescente. Gypsy è quindi prima di tutto un character study complesso e non banale, soprattutto per il suo scegliere come protagonista una donna imperfetta, spigolosa e con difetti (infedeltà, mendacia, stanchezza) tipici dei protagonisti maschili. Siamo lontanissimi dai (pur bei) personaggi femminili che abbiamo visto quest'anno in TV, personaggi forti e volitivi, spesso vittime della società e del mondo maschile. Jean qui non è la vittima, ma anzi sono tutti coloro che le gravitano intorno (a partire dal marito Michael interpretato da un convincente Billy Crudup) che sono destinati a soffrire le conseguenze delle sue azioni. Con le dovute proporzioni, Jean è una sorta di Don Draper che cerca di fuggire dal suo passato ed è comunque incapace di trovare la felicità in quello che ha costruito.
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Tuttavia è proprio nel paragone (certamente ingiusto) con Mad Men o altre serie di altissimo livello che vengono fuori i limiti di una serie come Gyspsy: se la costruzione del personaggio principale è interessante e dalle infinite potenzialità (anche grazie ad una Naomi Watts intensa ma misuratissima), è nella costruzione del mondo in cui vive, nelle sottostorie e dei personaggi secondari che la serie creata dall'esordiente Lisa Rubin fallisce, perché chiede troppo ai suoi spettatori senza mai elargire sufficienti stimoli per proseguire una visione che si trascina un po' a fatica e senza reali avvenimenti. Forse la seconda metà della stagione, che non abbiamo avuto ancora modo di vedere, fornirà risposte e twist avvincenti, ma i primi episodi non sono sufficienti ad affascinare e a conquistare come fa invece la protagonista. Sta a noi scegliere quanto ci sta a cuore questa crisi di identità e quanto ci interessa risolvere il rebus rappresentato dalla sua vita. Per un thriller è troppo poco, per un dramma della durata di dieci ore forse pure troppo.
Movieplayer.it
2.5/5