A otto mesi di distanza dalla presentazione nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, dove ha ottenuto un'ottima accoglienza da parte della critica internazionale, dal 5 gennaio arriva nelle sale italiane la terza fatica dietro la macchina da presa di Hlynur Pálmason, già noto ai frequentatori dei circuiti festivalieri per il drammatico Winter Brothers (2017, premio per il miglior attore a Locarno) e il thriller/noir A White, White Day - Segreti nella nebbia (2019, passato alla Semaine de la Critique a Cannes e poi vincitore come miglior film al Festival di Torino).
Ispirato a sette fotografie ritrovate in Islanda scattate da un prete danese, come dichiara esplicitamente la didascalia all'inizio del film, Godland - Nella terra di Dio è un intrigante e coraggioso film d'autore che, pur non riuscendo ad essere all'altezza delle proprie notevoli ambizioni, potrà senz'altro essere apprezzato da chi è alla ricerca di un cinema più raffinato e meno convenzionale.
Il viaggio in Islanda
Siamo alla fine del XIX secolo quando il prete danese Lucas (Elliott Crosset Hove, già protagonista della sopra citata opera prima di Pálmason) viene inviato in Islanda - all'epoca ancora sotto il controllo della Danimarca - per costruire una chiesa e nel frattempo documentare attraverso il mezzo fotografico la realtà e la vita dell'isola. Ad aiutarlo in questo viaggio che prevede il confronto con una natura affascinante, incontaminata ma anche durissima, ci sono l'esperta guida Ragnar, un interprete e un piccolo gruppo di uomini. Tra difficoltà di comunicazione (il prete non comprende l'islandese parlato dalle altre persone del gruppo) e l'avversità del clima, Lucas ben presto vedrà smarrire ogni certezza, allontanandosi da tutto ciò che aveva fino a quel momento guidato la propria vita.
Una grande esperienza visiva
Estremamente raffinato sul piano visivo e girato in 4:3, Godland - Nella terra di Dio si avvale di alcuni momenti, movimenti di macchina e passaggi da una sequenza all'altra di notevole bellezza estetica, in grado di colpire profondamente lo spettatore. Solo per citare un paio di esempi, si pensi al lento movimento in panoramica a 360 gradi della macchina da presa che mostra il paesaggio islandese facendo ritorno sul prete steso dopo il mancamento o al passaggio dalle immagini della lava del vulcano a quelle sott'acqua che segna la fine della prima parte del film e l'inizio della seconda. Anche grazie all'ottima fotografia della fida collaboratrice del regista Maria von Hausswolff, Hlynur Palmason riesce a immergere con mirabile efficacia lo spettatore nella natura dell'isola, al contempo così meravigliosa e ostile.
I limiti di scrittura
Se dal punto di vista estetico ci troviamo di fronte a un film di notevolissimo valore, a non convincere è la sceneggiatura, che suggerisce tanti temi importanti (i dubbi sulla fede e la perdita dei principi morali, l'impossibilità di reale comprensione tra danesi e islandesi, il colonialismo, il rapporto tra uomo e natura) senza mai essere in grado di approfondirli a dovere. Alcune importanti svolte che fanno evolvere i rapporti tra i personaggi, inoltre, arrivano troppo velocemente senza essere adeguatamente "preparate", lasciando la netta sensazione che il regista, anche unico sceneggiatore del film, abbia tentato invano di rifarsi alla rara abilità tipica dei grandi autori di giocare con il non detto. Ad ogni modo nonostante questi evidenti limiti, tra suggestive immagini simboliche e una messa in scena estremamente rigorosa in ogni sua inquadratura, Godland - Nella terra di Dio è una vera e propria gioia per gli occhi di chi guarda. E in tempi come questi in cui l'approccio estetico risulta spesso fin troppo prevedibile e standardizzato, non si tratta di un pregio di poco conto.
Conclusioni
Arrivati alla conclusione della recensione di Godland - Nella terra di Dio, ci teniamo a ribadire come il trentanovenne regista islandese Hlynur Pálmason abbia realizzato un film raffinatissimo sul piano estetico che, però, non riesce ad essere all'altezza delle proprie ambizioni dal punto di vista della scrittura, rimanendo troppo in superficie nella trattazione degli importanti temi che mette sul piatto e nello sviluppo delle dinamiche che regolano i rapporti tra i personaggi. Se il lavoro sulla sceneggiatura fosse stato al livello di quello sull'aspetto visivo, staremmo parlando di un capolavoro.
Perché ci piace
- La capacità di immergere lo spettatore nei meravigliosi e ostili paesaggi islandesi.
- Il rigore e la cura in ogni singola inquadratura.
- Molte sequenze e immagini colpiscono profondamente per la loro bellezza.
Cosa non va
- Gli evidenti limiti della sceneggiatura, incapace di approfondire i tanti temi suggeriti.
- Il tentativo non riuscito di puntare molto sul non detto.
- Il ritmo lento della narrazione lo rende un film particolarmente ostico per un tipo di pubblico poco incline al cinema d'autore.