Recensione Road to Nowhere (2010)

Dopo una pausa di oltre vent'anni il regista Monte Hellman, da sempre ostile alle regole del cinema hollywoodiano, torna al lungometraggio con un esperimento ai limiti dell'indecifrabile, che sfrutta le inedite possibilità espressive del digitale per svincolarsi dalle tradizionali convenzioni narrative.

Gli intricati sentieri del racconto cinematografico

"Se il film avesse una storia non mi interesserebbe": dichiara pressappoco così Mitchell Haven, regista visionario e anti-hollywoodiano al lavoro su un film tratto da una storia vera ancora non completamente chiarita, che coinvolge un politico corrotto e la sua affascinante compagna. La frase suona più o meno come una dichiarazione poetica che il regista Monte Hellman fa pronunciare al suo non troppo velato alter-ego. E, in effetti, non si può dire che l'autore americano nel corso della sua carriera abbia percorso strade cinematografiche consuete, basti citare Strada a doppia corsia, una delle sue opere più celebrate. In un certo senso anche Road to Nowhere - suo ritorno al lungometraggio dopo uno iato di circa vent'anni - può essere considerato una specie di road movie, però di tipo meta-cinematografico. Vale a dire che la strada da percorrere è soprattutto quella del racconto cinematografico stesso, che nell'intricato esperimento di Hellman si dipana in maniera ipertrofica e incontrollata, come una via intersecata da innumerevoli incroci e biforcazioni.

In Road to Nowhere (non potrebbe esserci titolo più programmatico) si intersecano e si sovrappongono, assolutamente senza soluzione di continuità, molteplici piani narrativi: la finizione cinematografica e la vicenda realmente accaduta, la recitazione degli attori e la vita parallela dei rispettivi personaggi, tra loro del tutto indistinguibili. La narrazione fluttua di continuo, oscillando nel tempo e nello spazio, passando da Hollywood alla North Carolina, con tappe in Italia e a Cuba. A contrapporsi è l'eterna dicotomia che sta alla base stessa della Settima arte, vale a dire cinema e reale. Un'opposizione irriducibile: come riuscire a filmare la realtà, se essa si evolve in continuazione e muta il proprio corso in maniera contraddittoria e irrazionale? La messa in scena cinematografica - sembra dire Hellman - influenza direttamente la realtà rappresentata, fino al punto da modificarla e alterarla con la sua stessa presenza, creando un corto-circuito irrisolvibile.
Il film di Hellman sonda, proprio come INLAND EMPIRE di David Lynch, le nuove frontiere del cinema, che grazie alla tecnologia digitale guadagna un'illimitata libertà di sguardo. L'accostamento tra i due film è quasi automatico. Entrambi partono dal genere (nello specifico il noir) per elaborare una riflessione meta-cinamatografica, entrambi si avvalgono dell'apertura espressiva del mezzo digitale, entrambi finiscono con l'essere ossessionati dal primo piano di un'attrice: l'inquieta Laura Dern per Lynch e l'abbacinante Shannyn Sossamon per Hellman. Non si può fare a meno di constatare che è proprio con l'approdo al digitale che l'opera di questi autori diventa ancora più aperta e indecifrabile, come se fosse il mezzo a suggerire una modalità di rappresentazione fondata sull'indefinitezza, sull'imperfezione, sulla mancanza di conclusione. Rigidamente teorico e programmaticamente antispettacolare e intellettuale, il lavoro di Hellman si situa ormai oltre la roccaforte di Hollywood, ai confini del genere e ai margini dell'industria, in un eremo fatto di avanguardia e di sperimentazione.