È stato uno dei grandi successi dell'ultimo Festival di Cannes, dove ha vinto quattro premi: il Queer Palm, il Premio FIPRESCI, il premio d'interpretazione per la sezione Un Certain Regard e la Caméra d'Or, che ricompensa la migliore opera prima. Parliamo ovviamente di Girl, l'esordio registico del giovanissimo Lukas Dhont (classe 1991), la storia di un'aspirante ballerina transgender di nome Lara (Victor Polster) che deve fare i conti con le difficoltà legate al suo essere nata maschio. Il film,** nelle sale italiane dal 27 settembre - a proposito, qui potete leggere la nostra recensione di Girl di Lucas Dhont - è stato presentato anche a Telluride e Toronto, ed è stato scelto per rappresentare il Belgio nella corsa agli Oscar. Abbiamo intervistato il regista al Festival di Zurigo, dove Girl è stato selezionato nel concorso internazionale lungometraggi.
Un esordio delicato
Per cominciare, com'è nata l'idea del film? Non è un argomento facile, soprattutto per un'opera prima.
È vero, è un tema molto fragile, molto delicato. L'idea mi è venuta quasi dieci anni fa, nel 2009. Avevo 18 anni, e lessi in un giornale belga di questa ballerina e dei problemi che aveva a causa del suo sesso biologico. Mi sembrava uno spunto interessante per raccontare un mondo in modo inedito, e contattai la ragazza in questione. Mi autorizzò a raccontare la sua storia, siamo diventati buoni amici e mi ha aiutato molto nello sviluppo della sceneggiatura.
Il film non edulcora le difficoltà quotidiane di Lara, ma il tono è generalmente ottimista. Questo equilibrio è stato importante per te?
Sì, non volevo che la storia risultasse troppo triste, e così ho deciso di mostrare Lara circondata da sostegno e affetto, il che è quasi peggio, da un certo punto di vista. Alla fine lei è la propria peggiore nemica, è la vera antagonista, ma il film non giudica nessuno.
C'è una scena dove le altre ballerine chiedono a Lara di mostrare i genitali. In un altro film sarebbe stato un momento di massima umiliazione, tu invece l'hai raccontato con un misto di imbarazzo e umanità.
Rimane un momento difficile e in parte umiliante per lei, ma non c'è cattiveria da parte delle altre ragazze. Sono tutte adolescenti, sono curiose, stanno scoprendo i propri corpi, e non hanno mai visto un organo maschile. La differenza sta tutta lì, nella caratterizzazione: non sono le antagoniste del film, anche se quella scena mostra una situazione dolorosa.
Non è la scena dello spogliatoio in Carrie - Lo sguardo di Satana...
Esatto! Ci si avvicina, ma non siamo a quei livelli.
L'interprete giusto
Parliamo del casting. Quando hai vinto la Caméra d'Or a Cannes, hai accennato a un processo lungo e faticoso.
È così. Ho iniziato il casting un anno e mezzo prima di girare il film, e abbiamo visto centinaia di giovani: maschi, femmine, trans. C'era sempre un elemento mancante: o non sapevano recitare, o non sapevano ballare, o non avevano l'aspetto giusto. Volevo essere sicuro di rappresentare bene non solo il mondo transgender, ma anche quello della danza. Dopo un po' ho sospeso le ricerche dell'interprete principale e ho cominciato a riempire i ruoli secondari, con l'aiuto della mia coreografa. E durante quella fase del casting ho incontrato Victor Polster. So che è una frase fatta, ma aveva letteralmente una faccia d'angelo, perfetta per il film. Quando balla è elegante, c'è una certa femminilità.
Hai menzionato il tuo voler rappresentare il mondo transgender nel modo giusto. Possiamo parlare della polemica sorta durante il Festival di Toronto?
Certamente, anche se non l'ho seguita nei dettagli.
In sostanza, i critici transgender americani hanno detto che non vedranno mai il film, per principio.
Perché Victor non è trans?
Sì. Ti hanno anche dato un soprannome sui social: Lukas Don't ("Lukas, non farlo").
Non male (ride_, n.d.r.). Per quanto riguarda il boicottaggio del film, mi rendo conto che nell'industria cinematografica americana quello delle minoranze è un discorso molto complesso e delicato. D'altro canto penso che si debba tenere conto anche dell'intenzione che c'è dietro il singolo progetto, e non bisogna generalizzare. Girl nasce da un desiderio di affrontare la tematica con amore ed empatia.
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Festival, premi e Netflix
Restando in zona festival, che ricordi hai di Cannes? Il passaparola del film è stato notevole, e alla fine hai vinto il premio per la migliore opera prima.
Non dimenticherò mai il 12 maggio di quest'anno. Non avevo la minima idea di come sarebbe stato accolto il film, perché dopo averci lavorato per quattro anni non sapevo più neanch'io cosa pensarne, pur essendone fiero. La prima a Cannes è stata meravigliosa, tenevo per mano i due attori principali nella sala e non ho visto il film, ho passato tutto il tempo ad ascoltare le reazioni del pubblico, con gli occhi chiusi. E vincere quattro premi diversi, assegnati da quattro giurie diverse, per me è la conferma che sebbene il film non sia per tutti i gusti, in qualche modo funziona. Mi ha dato una botta d'energia.
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Il film è stato scelto per rappresentare il Belgio nella corsa agli Oscar. Qual è stata la tua reazione?
Sono felicissimo, ma la situazione americana, come abbiamo detto prima, è molto delicata. Farò tutto il necessario per promuovere il film, e spero che si possa organizzare una tavola rotonda per parlare delle tematiche e di come sono rappresentate sullo schermo.
C'è stata anche la polemica sul rapporto tra Cannes e Netflix, e quest'ultimo ha acquistato i diritti americani del tuo film. Qual è la tua opinione in merito?
Capisco il punto di vista di Cannes, ma capisco anche il motivo per cui esiste qualcosa come Netflix. Non mi schiero né da una parte né dall'altra, sono come la Svizzera (ride, n.d.r.). Battute a parte, quando si distribuisce un film bisogna fare delle scelte, e spero che il pubblico giovane possa scoprire Girl anche attraverso Netflix. Come regista sono a favore della difesa della sala, ma bisogna anche riconoscere la realtà odierna, che è a base del consumo continuo, e non mi va di giudicare quell'aspetto.