Il 9 ottobre uscirà nelle sale italiane l'ultimo film di François Ozon, Ricky - Una storia d'amore e libertà, presentato all'ultima edizione del Festival di Berlino. Una storia in bilico tra realismo e favola, quella dell'operaia Katie, che da sola si occupa della figlia di sette anni e che incontra nella fabbrica dove lavora lo spagnolo Paco, con il quale intreccerà un'appassionata relazione, da cui nascerà il piccolo Ricky. A qualche mese dalla nascita, però, il bambino inizierà a manifestare una mutazione tanto inquietante quanto inspiegabile: la crescita di due piccole ali che, da due rachitici moncherini, più da pollo che da angelo, si trasformeranno presto appendici piumate di tutto rispetto. Katie, la piccola Lisa e Paco dovranno così fare i conti con la diversità di Ricky, e con tutte le difficoltà, ma anche le gioie, che il suo essere così speciale comporta. Il regista François Ozon ci ha parlato oggi della sua chiave di lettura della pellicola, e delle suggestioni che ha voluto offrire a noi spettatori.
Nel film vi è uno sbilanciamento di toni, da quello realistico alla favola. Come ha ricomposto questi estremi?
François Ozon: E' strano che quando si parli di ambiente proletario lo si identifichi sempre con il realismo, in questo caso la prima parte è già abbastanza stilizzata. Mi interessa l'ambientazione difficile, e mostrare come un evento straordinario è in grado di trasformare delle vite.
Ognuno degli spettatori deve dare un'interpretazione personale alla pellicola. Secondo lei, quando un film va spiegato, ha fallito? E qual è la sua interpretazione della vicenda?
Qui lo spettatore è libero di interpretare, io pongo delle domande, e mi piace che la vicenda si presti a molteplici interpretazioni. So che ci sono state reazioni molto diverse alla pellicola, e questo scatenare l'immaginario mi fa molto piacere. Dipende anche dal contesto culturale e sociale in cui una persona vive: chi ha una cultura cattolica tenderà a leggerci l'elemento religioso, altri ci vedranno quello marxista, ma io voglio che comunque il pubblico si interroghi. Voglio che dia la sua interpretazione. La mia intenzione è quella di raccontare, e di lasciare liberi gli spettatori.
Il bambino ha anche dei lati inquietanti, è una figura insieme sacra e spaventosa quindi?
Quello che volevo mostrare è che la nascita di un bebè non è soltanto un avvenimento felice, ma ha anche il suo lato mostruoso. Nel racconto breve da cui è tratto il film era un angelo, mentre noi volevamo renderlo una sorta di brutto anatroccolo, non così bello, ma che agli occhi di una madre è il più meraviglioso del mondo. Come spesso capita del resto, mi piace dare l'immagine di come tutto cambi attraverso gli occhi dell'amore.Lei è padre? Come si inserisce la figura maschile in questo rapporto madre-figlio così intenso?
No, per il momento no. Molti dicono che i suoi film per un regista sono come dei figli, quindi in un certo senso... Volevo mostrare la difficoltà di essere padre all'interno del nucleo familiare, per una persona che non ha portato il figlio in grembo e che non ha quindi con lui un rapporto così speciale, quasi simbiotico. Questo è evidente nelle difficoltà tra Katie e Paco, con lei che diventa quasi paranoica. Il ruolo del padre è davvero di grande difficoltà.
Anche il ruolo materno è ambivalente, come in Regard la mer c'è anche qui un aspetto negativo?
Noi viviamo in una società che tende a idealizzare la maternità, invece avere un bambino non è tutto rosa e fiori, ci sono tante difficoltà: una madre deve accettare che il proprio corpo si trasformi, e così la sua vita sessuale, e deve anche imparare a lasciare andare il suo bambino quando sarà il momento. Io ho voluto mostrare tutte le sensazioni possibili, tutti i lati oscuri dell'istinto materno nella sua complessità.
L'elemento fantastico ricorda quello di Mr. Vertigo di Paul Auster. Lo ha letto?
No, il film è ispirato al racconto Moth di Rose Tremain. E' comunque un tema universale, quello del volo.
Nel racconto il finale è diverso, e anche il marito è una figura maggiormente negativa. Come mai lei ha scelto il lieto fine?
Il racconto è triste, non corrisponde alla mia visione, in cui l'elemento fantastico porta felicità ed equilibrio. Di tutta la vicenda colpisce sicuramente l'idea del bambino che vola, ma io volevo concentrarmi il più possibile sui problemi della famiglia, che io ho distrutto tante volte in passato, ma che ho capito essere forse un male necessario.In vista della retrospettiva romana sui suoi film, come rivedere le sue opere precedenti?
E' molto tempo che non rivedo i miei film, quindi forse non sono la persona più adatta a dirlo. Ad esempio ci sono dei legami tra Ricky e Sur la Sable, dove Charlotte Rampling viveva nel suo mondo immaginario, come qui fa in un certo senso Katie, che si immagina madre di un bambino straordinario per accettare la propria realtà. Forse in tutti i miei film c'è il tema dell'immaginario, che serve ad accettare la realtà della vita, ed è anche un modo per parlare del cinema in generale.
Com'è stato lavorare con un bambino così piccolo?
Arthur all'inizio della lavorazione aveva nove mesi, e abbiamo aspettato che avesse un anno e tre mesi per realizzare la scena in cui camminava. Quando si fa un casting per i bambini, bisogna fare attenzione alle madri, e quella di Arthur è una hostess, forse per questo ha accettato così facilmente l'idea di un bambino che volava! Tutto si fa in funzione dei ritmi del bambino, è stato lui la vera star. Lui ne era felice, gli altri attori forse erano un po' irritati dall'essere messi così in secondo piano.
Anche nelle favole tradizionali c'è una base realistica. Ha pensato a questo per l'alternanza di registro della storia?
Si, mi sono ispirato alle favole dei fratelli Grimm, come Hansel e Gretel o Pollicino, in cui c'è anche un forte elemento tragico, con genitori che non riescono a dare da mangiare ai figli e magari decidono anche di abbandonarli. Poi irrompe il lato fantastico, come in questo caso: c'è una donna con delle difficoltà, un uomo che non trova il proprio posto nella famiglia, ma poi tutto va a posto grazie a Ricky.
Qual è il ruolo dei media? Per Katie sembra l'unica possibilità di assicurare un futuro a Ricky.
All'inizio c'era la voglia di una denuncia più forte di questo aspetto, poi ho capito che questo non era l'intento principale del film. Loro, come anche il dottore, rappresentano il mondo esterno, con il quale Katie non vuole condividere il figlio, prima che Paco le faccia capire che deve. Non volevo insistere su questo cliché della negatività dei media, anche perché ci sono anche delle teorie psicanalitiche che dicono che queste trasmissioni, come i reality, fanno anche del bene a coloro che vi partecipano. Magari per loro è l'unico modo di cambiare le loro vite e soprattutto quella del bambino, e qui si apre il dilemma. Magari per alcuni non è così semplice dire "no, i reality no". In Francia abbiamo avuto delle reazioni molto diverse, ad esempio gli uomini dicevano che Paco era una persona pratica, mentre per le donne era un vero mascalzone.
Cosa ci dice del suo prossimo film?
Si chiamerà Le refuge, è già stato al festival di Toronto e a quello di San Sabastian, e uscirà il 27 gennaio prossimo in Francia, mentre in Italia a marzo.
In questo film affronta anche il tema della diversità. Per lei cos'è?
La diversità fa paura, ma qui per sua madre Ricky è un vero tesoro, che dà valore alla sua vita ed è fonte di arricchimento. Proprio per questo lo vuole tenere solo per sé.