Recensione La città proibita (2006)

Non è un wuxia, il nuovo film di Zhang, nonostante il grande impatto delle scene d'azione: è piuttosto la descrizione ambientale ad assurgere a elemento primario della narrazione, sorretta da una costruzione visiva davvero stupefacente.

Fiori di sangue

Dopo la parentesi "contemporanea" di Mille miglia... lontano, con questa pellicola Zhang Yimou torna a cimentarsi con il film in costume ad ambientazione storica, trasportando nella Cina del X secolo un'opera dello "Shakespeare cinese" Cao Yu. Non è un wuxia, La città proibita (nell'ottica della banalizzazione, quest'adattamento del titolo internazionale Curse of the Golden Flower è un capolavoro): nonostante i duelli ci siano e abbiano un notevole impatto visivo, nonostante le grandiose scene di massa concentrate soprattutto nella parte finale, è la descrizione ambientale ad assurgere qui a elemento primario della narrazione, sorretta da una costruzione visiva davvero stupefacente.
La storia è ambientata nella Cina della tarda dinastia Tang, in una corte imperiale che cela il suo decadimento dietro una facciata opulenta e sfarzosa. Il ritorno dell'imperatore presso la sua residenza, in occasione della festività dei fiori dorati, è l'occasione per la conflagrazione di rancori, odi e veleni troppo a lungo trattenuti. Incesti, tradimenti, scontri fratricidi e di padri contro figli: tutto verrà scoperchiato come un enorme, putrescente calderone, segnando una via senza ritorno per l'ormai agonizzante famiglia imperiale.

Quello che primariamente colpisce di Curse of the Golden Flower è l'aspetto visivo: la complessità cromatica che già caratterizzava Hero e La foresta dei pugnali volanti viene portata qui alle estreme conseguenze, creando una sorta di caleidoscopio filmico di incredibile, elaborata e seducente bellezza. La stupefacente scenografia del palazzo imperiale, insieme agli elaboratissimi costumi, rappresenta il trionfo di quella polifonia di colori (in cui è comunque l'oro a dominare, come tonalità che si insinua in tutte le altre) che il regista ha voluto per sottolineare lo sfarzo ostentato, opulento e barocco, che caratterizza la vita di corte. Ed è proprio questo sfarzo, contrapposto al marciume che avvolge e penetra ormai in profondità la famiglia imperiale, il centro tematico del film, che vive principalmente di questa dialettica che viene sublimata nella mezz'ora finale. E' il melò, nella sua essenza più pura e non mediata, che impregna di sé ogni fotogramma del film, molto più che in qualsiasi opera precedente del regista: melò che unisce inestricabilmente i sentimenti alla carnalità e alla morte, e che si tinge infine di una tonalità di rosso sangue, incancellabile nonostante la pretesa dell'oro di ricoprire (nuovamente) il tutto.

E' proprio nella fisicità delle scene d'azione una delle caratteristiche che più stupiscono del film, che nulla o quasi concede all'eterea leggerezza che aveva caratterizzato i duelli dei due precedenti wuxia di Zhang. Qui le sequenze marziali, curate ancora una volta da Ching Siu-Tung, hanno una consistenza fisica che si "sente", accentuata da quei cavi stavolta visibili e facenti parte in tutto e per tutto dell'azione: quasi a negare una delle cifre stilistiche più importanti del genere (che a sua volta il regista aveva piegato ai suoi intenti), azzerata da una concretezza che stavolta colpisce duro. E nelle imponenti scene di massa, visivamente impressionanti quanto magistralmente dirette, l'assunto è ribadito in modo ancor più chiaro.
Certo, qualche difetto si può rintracciare in una sostanziale prevedibilità degli sviluppi della trama (ma in fondo il melò ha regole ben fissate: perché proprio Zhang avrebbe dovuto trasgredirle?) e nel mancato approfondimento di qualche personaggio che risulterà, poi, giocare un ruolo più che importante nell'evolversi della vicenda. Difetti esistenti e innegabili, forse inevitabili in un film che "paga" così tanto all'aspetto puramente visivo; ma a controbilanciare in qualche modo questo aspetto vanno ricordate le ottime prove di Chow Yun-Fat (cinico ed enigmatico all'inizio, infine folle e stralunato, ma soprattutto tornato finalmente a un ruolo di spessore) e di Gong Li (forse stanca di interpretare personaggi giapponesi), oltre a una folta schiera di "comprimari" (tra cui va ricordato almeno il giovane Jay Chou) in grado di reggere al meglio la complessità drammatica e narrativa del film.

Movieplayer.it

4.0/5