"No, il finale non è scontato, volevamo lasciare un'emozione forte. E crediamo di esserci riusciti". Lo abbiamo scritto nella nostra recensione, L'altra via di Saverio Cappiello, con la sceneggiatura firmata da Giuseppe Gallo, oltre essere un'opera prima di pregevole fattura, ci ha fatto scoprire il talento di Fausto Verginelli, che interpreta Andrea Viscomi, il bomber con la maglia numero 9 della U.S. Collidoro, squadra locale nella Catanzaro del 1990. Un'interpretazione sincera, semplice, ma accentuata, piuttosto misurata nella sua profondità di uomo vulnerabile.
Al suo fianco, un altro "fenomeno", ben più giovane, ovvero Giuseppe Pacenza, al suo primo ruolo: un bambino che, spinto dal sogno e dal romanticismo di un calcio che non esiste più, si avvicinerà a quel calciatore talentuoso ma dalla vita scombussolata. Intanto che L'Altra Via è al cinema (con un consiglio, non perdetelo!), abbiamo chiacchierato proprio con Fausto Verginelli, parlando con lui del film, ma anche di calcio, di riferimenti e di quanto un personaggio, per essere credibile, deve essere totalmente supportato dal proprio interprete. Cosa in cui Verginelli è riuscito alla grande.
Fausto Verginelli, la nostra intervista al protagonista di L'altra via
Fausto, come sei riuscito a 'sparire' dietro il personaggio di Andrea Viscomi?
Quando lavoro sul personaggio mi faccio delle domande. Mi creo una storia. Anche ispirandomi ad alcune situazioni. In lui c'è la fase dell'eroe, del campione, e poi la fase del crollo. È come trattare due temi diversi. Come creare una sorta di Frankenstein. Penso a Massimo Palanca, uno dei più grandi nel Catanzaro. Uno che quando segnava 'tremava la Tiburtina', perché è una zona di Roma piena di studenti calabresi fuori sede... fa ridere ma è un'espressione realistica, vera. Insomma, da una parte c'è l'idolo, dall'altra ecco il fallimento. E mi sono ispirato a Carlo Petrini, che ha voluto raccontare tutto il disaggio e il sottobosco del calcio Anni 70 e 80. Due anime, che ho unito e messe insieme. Portando con me il ricordo degli Anni 90.
L'Altra Via: clip in esclusiva dell'opera prima di Saverio Cappiello
Gli Anni 90 che tu hai vissuto, ma che non ha vissuto il tuo compagno di set, Giuseppe Pacenza.
Sì, sul set raccontavo a Giuseppe com'era vivere in quegli anni. Ha voluto sapere tutto, per rendere la situazione più credibile. All'epoca c'era una condivisione fortissima. Mi ricordo che decoravamo i quartieri insieme. Nel 1990 c'era Totò Schillaci, un'idea di campione fascinoso agli occhi di un bambino.
A proposito, gli Anni 90 sono tornati. Che ne pensi?
Gli Anni 90 sono tornati, sì, dalle serie ai cartoni, ma anche nella moda. Mia nipote ha 13 anni, e porta i jeans di mia sorella, che all'epoca aveva la sua età. È tornato tutto ciò che indossavamo... Oggi i ragazzi vedono cose di tendenza che appartengono al nostro passato.
L'altra via parla anche di seconde possibilità. Eppure oggi non è ammesso sbagliare.
Tutti hanno diritto ad una seconda possibilità. E qui la spontaneità arriva dalla naturalezza del piccolo Marcello. Andrea trova in lui il punto di forza, e prende da lì l'energia. Senza retorica, ma oggi i social portano ad una ricerca della bellezza solo apparente, che invece è grottesca. Siamo condizionati dall'apparire. Ecco, io non sono molto social: sembra strano per chi fa l'attore, però mi faccio aiutare da amici, magari per promuovere i miei lavori.
Il calcio al cinema
Il calcio qui è un pretesto, ma il film dimostra che il calcio al cinema può essere raccontato.
Dipende da come lo racconti. Faccio un esempio: la storia del Titanic puoi raccontarla in decine di situazioni, documentari, fiction... Però poi arrivano Jack e Rose che cambiano le carte in tavola. Qui raccontiamo l'amicizia all'interno di un pretesto, ovvero il calcio e il calcio scommesse. Andrea è un asociale, Marcello è più cazzuto. Il punto d'arrivo è sempre il messaggio: qui c'è l'incontro di due anime, di due solitudini.
Tra l'altro l'idea di calcio che c'è ne L'altra via è molto più romantica rispetto al calcio odierno.
Non c'è più romanticismo oggi, però un momento di ritrovo, anche se il clima è diverso allo stadio. Prima era una messa, e dal balcone sentivi in stereofonia le radio collegate con i campi. C'è una distrazione tale che il calcio è diventato per pochi.
Nemmeno in campo sono più accettati gli sbagli.
Oggi gli atleti sono soggetti agli sponsor, alle immagini. All'epoca qualche chilo in più non era un problema, oggi i calciatori devono essere perfetti. E ti dico: mi sono preparato per due mesi fisicamente per il ruolo. Giocavo da ragazzino, ero arrugginito, e ho pensato di allenarmi per essere più scattante. E sul set ho voluto fare tutto: non ci sono controfigure! Il rigore che tiro, lo tiro io...
Il cinema da scoprire
Come scegli le storie che poi interpreti?
Innanzitutto, oltre il lavoro dell'attore, scrivo molto per il Teatro Ragazzi, ora sono in scena con Il venditore dei Palloncini. È un teatro sociale, pensato per la sensibilizzazione dei bambini. Mi rivolgo ai piccoli, per parlare però ai più grandi. Dietro alle scelte deve esserci sempre una motivazione, e deve esserci una storia. Costruisco nella mia testa un percorso importante, anche quando i personaggi sono piccoli. Poi, vedo tanti film e giro i festival, come Berlino e Cannes. Mi soffermo su quei titoli che in Italia non potrò vedere.
Ecco, e invece il tuo film sportivo preferito?
Te ne dico due, anche se lo sport è marginale: Il sole dentro di Paolo Bianchini, storia di due ragazzi guineani in qualche modo vittime della tratta dei baby calciatori, e poi Mysterious Skin di Gregg Araki. Il pretesto della storia parte proprio da una squadra di baseball...